I test antidroga sono entrati di prepotenza nel dibattito italiano sulle droghe, in questo scorcio di primavera del 2007. Per la verità non è la prima volta: già nel 2003, due progetti di legge regionali erano stati presentati in Lombardia e in Veneto, rispettivamente da un consigliere di An e da un assessore regionale della Lega: si proponeva allora di sottoporre gli studenti delle medie e delle superiori a controlli periodici tramite un test salivale (il Cozart Rapid Scan), per avvertire poi tempestivamente le famiglie in caso di positività. Come ricorda Gianfranco Bettin (Fuoriluogo, ottobre 2003), l’aspetto più saliente della proposta era il coinvolgimento degli insegnanti e dei genitori nel controllo investigativo-poliziesco grazie allo sviluppo tecnologico. La matrice politico-ideologica dei due progetti era chiara: rilanciare il filone della “tolleranza zero” che tanta fortuna ha avuto in America fin dai tempi di Reagan. Per chi in Italia non lo sappia o finga di non saperlo, “tolleranza zero” non significa solo, né tanto, un approccio penale “forte”, quanto prima ancora la stampella ideologica che lo sorregge, il famoso “just say no” di Nancy Reagan. In questa luce, l’introduzione dei test si presentava come il naturale corollario della proposta Fini sulle droghe; che, si ricorderà, fu annunciata solennemente al meeting Onu di Vienna dallo stesso vicepremier di allora. E sempre a Vienna, l’Italia si allineava alla reazione americana contro le cosiddette lenient policies sulle droghe della maggioranza dei paesi europei. Quelle, per intendersi, della depenalizzazione del consumo personale; della riduzione del danno; della prevenzione ispirata al “just say know” (ossia al contenimento dei consumi, in primo luogo, per tutelare la salute dei consumatori in carne e ossa), contrapposta al “just say no”(ossia all’intransigenza sul principio dell’astinenza, in difesa dei “valori”). Quel “just say no” che in italiano suona come “consumi zero”.
Quattro anni dopo, i test sono agitati (anche) da esponenti dell’attuale governo e coalizione di maggioranza, che a suo tempo si erano impegnati a riprendere il sentiero interrotto delle lenient policies. Come queste vadano d’accordo con lo slogan del “consumo zero” non è chiaro. Ma vuoi che di spericolate acrobazie di “politichese” si tratti, vuoi che siamo davanti a un inedito saggio di meticciato culturale, è comunque un bene tentare di riportare il dibattito ai fatti e alle evidenze scientifiche. E alla storia.
Una storia americana
L’idea di sottoporre gli studenti a esami clinici per scoprire l’eventuale uso di sostanze illecite viene dall’America. Già alla fine degli anni ’90, l’amministrazione americana comincia a promuovere i programmi per testare casualmente gli studenti che partecipano al doposcuola e alle attivita’ sportive. Fin dal 1996, la American Academy of Pediatrics (AAP) prende posizione contro la pratica di sottoporre a test obbligatori i ragazzi.
Con l’avvento di Bush, la campagna per i test decolla definitivamente: nel 2002, lo ONDCP (Office of National Drug Control Policy), l’ufficio antidroga del presidente, pubblica le linee guida per sollecitare le scuole ad adottare i test antidroga. Nel discorso sullo stato dell’Unione del gennaio 2005, il presidente Bush propone uno stanziamento record di 25 milioni di dollari per un programma che vede al primo posto l’applicazione dei programmi di test nelle scuole insieme al potenziamento della DEA (gli agenti federali antidroga). Sulla sua scia, tre membri repubblicani del congresso presentano una proposta per sottoporre ai test tutti gli studenti e non solo, come fino a quel momento, quelli che partecipano alle attività sportive di doposcuola: gli istituti di provata fede drug free sarebbero premiati con finanziamenti extra. Nel 2006, lo zar antidroga John Walters, forte di un budget di oltre 9 milioni di dollari, inizia un giro di promozione nel paese per convincere gli amministratori delle scuole. La parola d’ordine dello zar è: i test antidroga sono “l’asso nella manica” della prevenzione.
Paradossalmente, ma non tanto, le fortune politiche dei test si costruiscono sul fallimento degli interventi di prevenzione più diffusi, i famosi programmi DARE (Drug Abuse Resistence Education): introdotti a tappeto in tutte le scuole a cominciare dalle elementari, i corsi erano ispirati al classico approccio terrorizzante (scare approach), con ex poliziotti ed ex tossicodipendenti in giro per le classi per insegnare ai ragazzi a resistere alla pressione dei pari e a osare (dare, appunto) di “dire no alla droga”. Col bilancio 2006, Bush taglia completamente i fondi a questi storici programmi figli di Nancy Reagan, ma “rilancia” con una mossa di escalation: svanite le velleità di indottrinamento (e tanto più quelle di persuasione) dei giovani, si punta al controllo puro e semplice, coi test. Come dire: se i discorsi non servono, ecco altri mezzi più “convincenti”.
Costosi, inefficaci e contrari all’etica
L’interesse dell’amministrazione americana va di pari passo con la campagna di marketing rivolta dalle case farmaceutiche direttamente alle famiglie. Su internet, si possono acquistare direttamente prodotti per identificare le droghe nelle urine, nella saliva, nei capelli. Il costo dei test è elevato, specie per quelli del capello. La Drug Policy Alliance ha calcolato che il costo medio per studente per il solo esame iniziale si aggiri sui 42 dollari. Il che significa che una scuola media superiore che volesse testare 500 studenti, spenderebbe sui 21.000 dollari: ovviamente i test vanno ripetuti per rafforzare l’effetto deterrente, e sono da rifare più e più volte in caso di esito positivo. E’ dunque un grosso business, che mette insieme le esigenze di mercato con la retorica della “lotta alla droga”. E spiega l’accanimento con cui l’amministrazione americana persegue il suo obiettivo, nonostante la mancanza di evidenze scientifiche.
Nel 2003, il NIDA (National Institute on Drug Abuse) ha finanziato una costosissima ricerca su larga scala nella speranza di dimostrare l’efficacia di questa politica. Dal 1998 al 2001, sono stati raccolti i dati sui consumi di 76.000 studenti di scuole medie superiori, provenienti sia da scuole con test che senza. Come spiegano le ricercatrici della Drug Policy Alliance, i risultati non hanno affatto confermato l’effetto deterrente dei test: le percentuali di studenti che consumano droghe nelle scuole che applicano i test sono sostanzialmente uguali a quelle delle scuole che non li applicano.
La American Academy of Pediatrics ha di nuovo preso posizione contro questa politica nel marzo del 2007, sottolineando, fra l’altro, gli aspetti eticamente controversi dei test. Infatti, la raccolta delle urine deve seguire precise e complicate procedure di garanzia che le scuole non sono in grado di assicurare. Ma non lo sono neppure i genitori che in ogni caso, per ragioni di etica e di tutela del rapporto educativo, non dovrebbero stare a guardare i figli mentre urinano.
Problemi diversi presentano i test della saliva e del capello, di cui non è ancora definitivamente accertata la validita’. Per il capello, sembra che interferiscano l’esposizione passiva alle droghe così come le differenze di sesso e razza. Per la saliva e il sudore, l’efficacia nel determinare l’uso corrente varia da droga a droga: è buona per gli oppiacei e le metamfetamine, scarsa per i cannabinoidi e le benzodiazepine. Per finire, anche l’interpretazione dei test può rivelarsi complessa e certamente non alla portata del personale scolastico né tanto meno dei genitori.
Per tornare al dibattito politico. E’ significativo che queste obiezioni ai test, lungi dall’essere ispirate da “ideologismi” (come in Italia si ama dire), provengano invece dal mondo statunitense, dal movimento degli insegnanti e dei genitori, dai riformisti della politica della droga. Non ci illudiamo che dare informazioni nel merito della questione possa fermare la attuale deriva retorica della politica italiana. Ma un piccolo contributo per raddrizzare il timone, almeno l’avremo dato.
giugno 2007