Vincere un premio Nobel significa diventare santi mentre si è ancora in vita. Una cornice quasi mistica accompagna le apparizioni pubbliche, mentre i toni solenni e una sacrale deferenza scandiscono l’incessante liturgia di incontri ufficiali, cerimonie e strette di mano. Un meraviglioso fardello che Shirin Ebadi, avvocatessa iraniana premio Nobel per la pace, sostiene con leggerezza e islamica sopportazione.
Brillante studentessa di giurisprudenza e prima donna presidente di un Tribunale nell’Iran dello Scià, Ebadi ha conosciuto in prima persona le crudezze e gli abomini del regime degli ayatollah. All’indomani della rivoluzione islamica venne rimossa dal suo ufficio perché donna, venti anni dopo venne rinchiusa nel famigerato carcere di Evin, teatro delle peggiori nefandezze del potere teocratico, perché in prima linea nei processi contro i crimini della polizia religiosa. E nel 2000, scorrendo gli atti di un processo per gli omicidi di alcuni oppositori politici, fece appena in tempo a sapere che il prossimo nome sulla lista dei condannati a morte dal regime era il suo.
Oggi, ancora più allergica ai dogmi dell’integralismo, Ebadi guida le speranze di molti iraniani che si battono per la costruzione di un Paese democratico.
Shirin Ebadi, gran parte della folla che invase l’aeroporto di Teheran per celebrare la vittoria del premio Nobel era composta da donne che inneggiavano alla pace e all’uguaglianza. Quanto è ancora lontana la fine delle discriminazioni contro le donne iraniane?
Vede, quando ero giovane molte donne iraniane non erano nemmeno consapevoli della loro condizione perché non conoscevano alcuna legge al di fuori dell’oppressione. Oggi invece siamo più colte (oltre il 65% della popolazione universitaria è donna), ricopriamo ruoli importanti all’interno della società civile e delle istituzioni e siamo pronte a combattere per correggere gli anacronismi del nostro sistema: ancora adesso la nostra vita vale – per legge – metà di quella di un uomo, così come la nostra testimonianza di fronte ai giudici. Un uomo può avere fino a quattro mogli e ripudiarle senza dovere addurre alcun motivo, mentre ottenere il divorzio per una donna è praticamente impossibile. La nostra lotta è ancora lunga.
Lei ripete spesso che ad essere incompatibile con un moderno Stato di diritto non è l’Islam, ma l’interpretazione che di esso perseguono i regimi autoritari e teocratici. Una tesi attualmente minoritaria…
Sono profondamente convinta che la religione sia, prima di tutto, un fatto privato. Quello musulmano è un credo di uguaglianza, tollerante e solidale, tradito dall’interpretazione fanatica e totalizzante di alcuni governanti. Una cosa deve essere chiara: non tutto ciò che i regimi compiono nel nome dell’Islam è “islamico”. Le stragi, le persecuzioni, il terrore che hanno segnato gli anni successivi alla Rivoluzione non sono altro che la maschera dell’Islam, la religione piegata alle convenienze e strumentalizzata.
Oggi noi musulmani progressisti combattiamo su due fronti, stretti tra gli amici ignoranti – i fondamentalisti che stravolgono la lettera del Corano – e i nemici consapevoli – coloro che approfittano dell’integralismo per giustificare azioni belliche “umanitarie”.
Non a caso lei ha spesso criticato la politica delle potenze occidentali nei confronti del regime teocratico. In quale misura la comunità internazionale può aiutare la lotta del popolo iraniano contro gli oppressori?
Prima di tutto è dovere del popolo iraniano – così come di tutti gli oppressi e delle vittime di soprusi – ribellarsi, combattere e costringere il proprio regime a riconoscere e rispettare i diritti fondamentali dell’uomo. La pressione dei paesi occidentali può servire solamente se esercitata “correttamente” e la storia ci insegna che sono stati gli interessi politici ed economici a guidare l’ingerenza occidentale – in particolare nordamericana – in Iran. Basti ricordare il colpo di Stato che rovesciò il governo democratico di Mohammed Mossadeq nel 1953, l’Irangate o l’appoggio militare fornito a Saddam Hussein mentre il dittatore inondava di gas nervino e iprite l’esercito iraniano.
Ritiene che la rinnovata attenzione internazionale in tema di pena di morte possa sollecitare Teheran a rivedere la propria posizione sulla pena capitale?
La storia dell’Iran è costellata da violenza e sangue, migliaia di uomini e donne sono stati giustiziati con incredibile freddezza, al termine di processi sommari e accuse farsesche. La pena di morte è, ancora oggi, niente più che una delle armi a disposizione del regime e ciò che più inquieta è che una parte significativa dei condannati a morte sono minorenni.
In questo rivedo lo stesso disprezzo per la vita umana già manifestato dalle nostre autorità quando – nel corso della guerra con l’Iraq – migliaia di ragazzini con una bandana rossa e le chiavi per il paradiso al collo venivano mandati a morire sui campi minati, per bonificare il terreno ed agevolare il passaggio del nostro esercito.
L’attuale governo di Teheran preoccupa l’Occidente, ma i più preoccupati siamo proprio noi iraniani. Ed è per questo che dobbiamo, ancora, lottare.
Si ringrazia l’Asgi – Associazione Studi Giuridici sull’Immigrazione