Recuperare i detenuti attraverso il rispetto per l’ambiente. Non si tratta dell’ultima utopia sociologica: in Norvegia è realtà. Si chiama Bastoey ed è il primo ecocarcere del mondo. In un posto che potrebbe fare da scenario a una fiaba nordica, un’isola in uno dei fiordi più belli della Norvegia, sorge un villaggio che, più che un carcere, sembra un campo vacanze. Sull’isola ci sono spiagge, foreste e una riserva naturale: due chilometri e mezzo di territorio protetto e ventuno casette di legno del ‘900 dove i prigionieri vivono, quattro o cinque per stanza, tra mobili di legno chiaro, cucine ben attrezzate e bagni pulitissimi. Le chiavi non servono. Non ci sono lucchetti, né pesanti serrature.
I 155 “osipti” di Bastoey sono responsabili per la gestione della struttura e tutto avviene nel pieno rispetto di rigorosi criteri ambientali: una raccolta differenziata attenta e meticolosamente gestita; pasti preparati con cibo prodotto sull’isola e coltivato dagli stessi detenuti secondo i criteri dell’agricoltura biologica; animali allevati con rispetto e umanità; riscaldamento a fuoco, alimentato da legname locale; energia prodotta da pannelli fotovoltaici che coprono oltre il 70 per cento del fabbisogno energetico della prigione: una struttura energeticamente autosufficiente.
La prigione qui non è una punizione, bensì un percorso di crescita e conoscenza. E questo percorso passa attraverso il rispetto di ciò che circonda l’essere umano. Ai prigionieri viene insegnato il valore della protezione della natura e del contesto umano. La filosofia è quella dell’ecologia umana. É lo stesso direttore del carcere, Oeyvind Alnaes, a usare questa espressione per raccontare Bastoey. “Vivere in un ambiente che dà ai detenuti responsabilità individuali e li pone di fronte a impegni e sfide può motivarli a cambiare i loro comportamenti. La nostra filosofia è il principio di responsabilità. L’umanità e l’ecologia sono i nostri ideali di base, qui insegniamo che quello che fai oggi ha conseguenze sul domani. Il fatto di sentirsi parte di un contesto regolato da precise dinamiche, fatto di rapporti e reciprocità, responsabilizza gli individui”.
In Norvegia il massimo della pena è di 21 anni, ma pochi detenuti la scontano per intero. Chi oggi è in carcere verrà poi reinserito nella società. “Domani sarà il nostro vicino di casa e, se per allora non sarà cambiato, allora avremo un problema” continua Alnaes. Verrebbe da pensare che un posto così il sistema penitenziario norvegese lo riservi a detenuti accusati di crimini minori. In realtà a Bastoey ci sono assassini e stupratori, rapinatori e pedofili. Si tratta, sì, di un carcere di minima sicurezza, ma non perchè gli ospiti non siano criminali a tutti gli effetti, bensì per scelta, per filosofia. Per venire a stare a Bastoey i prigionieri devono fare richiesta; compilano un questionario in cui devono innanzitutto rispondere alla domanda: “Bastoey è il posto per te?”. Gli aspiranti carcerati esprimono le proprie motivazioni che la direzione valuta e che, se ritenute valide e adeguate al programma, spalancano le porte della prigione più richiesta del paese. “Noi non vogliamo sapere che cosa hanno fatto nel passato. Ciò che ci importa è cosa vogliono fare da ora in poi”.
A Bastoey i detenuti possono studiare, giocare a tennis, avere una propria tv, nuotare in mare. Hanno a disposizione consulenti legali e psicologi, gruppi di alcolisti anonimi, operatori che si occupano del recupero dei tossicomani. Hanno l’opportunità di imparare un lavoro. “Vogliamo creare opportunità di sviluppo e di crescita per gli individui e gettare le fondamenta per possibili cambiamenti, offrire a tutti le migliori opportunità per costruire un futuro” dice Oeyvind Alnaes che, dopo avere lavorato per quindici anni nei penitenziari tradizionali, ha concepito il modello Bastoey. “La prigione – dice – non migliora la gente. Per questo abbiamo dovuto cercare altre strade. Se tratti male una persona, quello che la persona impara è a trattare male gli altri; se rispetti, insegni a rispettare”.
La giornata a Bastoey si svolge regolare: alle 7.15 la sveglia, alle 8 si inizia il lavoro. La puntualità non è un dettaglio: se si arriva tardi al lavoro per quattro volte bisogna lasciare l’isola. C’è chi lavora nelle stalle dove si allevano mucche e cavalli; c’è chi porta a pascolare le pecore, chi pesca in mare; nei campi si coltivano soprattutto patate. Gli edifici di legno hanno continuo bisogno di manutenzione e i detenuti se ne occupano come fossero le loro case. Poi c’è il lavoro nelle cucine, quello nella lavanderia e i turni di pulizia. Alle 15 finiscono i doveri e c’è tempo per lo svago e la socialità: cena nella sala comune e tempo libero. Bicicletta, calcio, d’inverno addirittura lo sci; e poi una biblioteca con migliaia di libri e computer. A sera il traghetto porta indietro i dipendenti: sull’isola restano solo i detenuti e cinque agenti che hanno il compito di controllare che alle 11 si spenga la luce in tutte le stanze.
“Questo carcere è un simbolo – dice il ministro della Giustizia norvegese Knut Storberget -, dimostra che è possibile pensare in modo diverso. Abbiamo bisogno di alternative ai modelli tradizionali: l’idea di sposare la detenzione all’ecologia mira a educare i detenuti al rispetto dell’ambiente oltre che della società e delle leggi”. Secondo Storberget i costi sostenuti per mandare avanti la struttura saranno ampiamente recuperati se il reinserimento dei detenuti nella società avverrà in maniera corretta: “se – dice – come gli altri cittadini saranno in grado di riprendere una vita normale e produttiva”.
Un posto perfetto, anche a detta dei detenuti che non fanno che dire quanto Bastoey abbia cambiato le loro vite. “Qui ho ritrovato me stesso – dice H., un detenuto di 57 anni accusato di corruzione -. Di giorno lavoro con i cavalli e quando mia figlia viene a trovarmi andiamo a fare una cavalcata insieme; la notte faccio il giornale dell’isola. Questa, se la sai usare, è una buona occasione”. N., 35 anni, arrestato per aver abusato dei suoi quattro figli, spiega: “Non serve chiudere la gente dentro le celle. Qui si impara ad amare il lavoro, ci si sente utili e così si migliora se stessi”. Eppure, ascoltando le storie di Bastoey, non si può evitare di fare una riflessione: che nell’ecologia umana, dentro questo delicatissimo ecosistema che è la società, un modello come questo possa funzionare solo nella misura in cui continuano a esistere altre carceri; che Bastoey abbia bisogno di un termine di paragone negativo, della “minaccia” di altre prigioni.