Se i dati avessero un qualche valore e i numeri un senso, le politiche in materia di droghe dovrebbero cambiare radicalmente, sul piano delle legislazioni nazionali e a maggior ragione su quello internazionale. A furia di ripeterlo in tanti abbiamo ormai perso la voce. Pure i termini “disastro” o “catastrofe” rimangono da anni quelli più indicati a descrivere la situazione. Se ne servisse conferma basta leggere il rapporto annuale dell’Osservatorio Europeo sulle droghe (Emcdda), presentato il 21 novembre a Bruxelles, e ancora meglio, superando decisamente l’ovvio equilibrismo del testo, ascoltarne la presentazione dal vivo. A me è capitato e il concetto più ripetuto dagli autorevoli presentatori è stato quello di “stabilizzazione ai massimi”. Come dire che la buona notizia è che il diluvio si è fermato e stabilizzato, la cattiva è che sono scomparse le terre emerse.
Ci sono finalmente riusciti! Con una certa differenza da sostanza a sostanza, ma possiamo oggi finalmente affermare che l’offerta di droghe in Europa ha praticamente saturato la domanda. Di più proprio non si può, neppure a regalare. Un posizionamento di mercato per cui un responsabile marketing farebbe le capriole, e dove subito si ragionerebbe nel tentativo di espandere la domanda stessa. Ma erano questi gli obiettivi delle politiche globali in materia di droghe, che tra poco più di un anno, alla scadenza della strategia decennale lanciata dall’assemblea Onu sulle droghe di New York (Ungass), si vorrebbero confermare? Sono questi i risultati della war on drugs? È questo il rallentamento della domanda e dell’offerta, questi i segnali che dovrebbero convincere qualcuno che quella assemblea non abbia totalmente sbagliato strada?
“Un mondo senza droga, possiamo farcela” vaticinava l’Onu dieci anni fa. Risulta oggi chiaro: no, non possiamo farcela. Non con queste politiche né con questi uomini. E noi italiani, a proposito di guerre perse, ce ne intendiamo, anzi non ci facciamo mancare niente: prima Arlacchi, oggi Costa a guidare lo sgangherato e oneroso carrozzone dell’Unodc di Vienna, solo uno degli organismi internazionali in materia che ci interrogano sui soldi buttati via in politica di cui l’Unione Europea è il principale donatore internazionale. Una narcoburocrazia di spaventosa incompetenza che aspira a riconferma, con un occhio alle elezioni Usa, e con l’idea di spostare nel tempo e nello spazio (2009 vs. 2008, Shanghai vs. Vienna) la verifica delle politiche e del proprio operato.
Sull’altro versante, le strategie alternative sono ancora un patrimonio minoritario, variamente disperso nelle associazioni, nelle forze politiche, nei movimenti. Il rischio che queste e questi si fermino alle porte (come già al meeting di Vienna nel 2003) è molto elevato. Siamo dunque allo stesso punto di allora? Non necessariamente, anche se guardando al panorama italiano siamo addirittura andati a ritroso: con l’approvazione della legge 49/2006 (la Fini-Giovanardi) e successivamente con la non-applicazione del programma dell’Unione o con la costante contesa che si accende in ogni amministrazione locale, quando si prova a perseguire progetti e obiettivi minimi ma concreti (si parli di stanze del consumo o di macchinette per lo scambio di siringhe).
Un elevato numero di ragioni per seguire i passaggi del lungo processo decisionale in sede internazionale ma soprattutto per richiedere a gran voce la Conferenza nazionale, e per attraversarla.