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Poche settimane fa i garanti dei detenuti, nominati a livello comunale e provinciale in molte aree del nostro paese e riuniti in un coordinamento, mi hanno inviato una lettera, approvata in una loro recente riunione, richiedendo che il Comitato che controlla le condizioni di privazione della libertà nei 47 paesi del Consiglio di Europa dedichi una particolare attenzione ai regimi speciali di detenzione nelle carceri italiane: dal “41 bis” agli altri regimi introdotti per via amministrativa e senza una chiara base legale, previsti per alcuni specifici target di detenuti.
Problema grave, quello sollevato, che riguarda proprio il fulcro dell’attività di chi ha il compito di vigilare sul sistema carcerario per evitare trattamenti contrari al senso di umanità e alla dignità della persona reclusa: non a caso il Comitato che presiedo si chiama per esteso “per la prevenzione della tortura e dei trattamenti o pene inumani o degradanti”, riprendendo nella sua denominazione la lettera dell’articolo 3 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo, che stabilisce il divieto assoluto di ogni forma di trattamento di tal genere. Le sezioni speciali e quelle dove si applica un particolare regime di più stretta sorveglianza sono proprio i luoghi in cui è maggiore il rischio sia di trattamenti che poco hanno a che fare con la sicurezza e molto più con l’umiliazione della persona, sia, simmetricamente, di false denunce di maltrattamenti, rese possibili dall’opacità di tali luoghi.
L’Italia avrà una visita – di quelle che periodicamente vengono fatte – proprio nel corso di quest’anno e ho, quindi, assicurato i garanti che questo tema sarà oggetto di attenta valutazione da parte della delegazione che verrà nel nostro paese. Il Comitato è del resto sempre ben attento alle segnalazioni da parte dei garanti italiani, di cui conosce l’impegno pur in difficili condizioni di definizione normativa del proprio ruolo.
Fin qui tutto chiaro e direi di normale prassi. Ma, due giorni dopo aver ricevuto la prima lettera ne ho ricevuta una seconda, da parte del garante regionale del Lazio che, dopo aver ribadito la condivisione del contenuto della lettera del coordinamento, mi informava che tale coordinamento non dovrà essere preso in futuro come interlocutore istituzionale, perché ne esiste un altro costituito dai due garanti regionali, nominati nel Lazio e in Sicilia da apposita legge regionale e non da una mera decisione dell’ente consiliare locale, come avviene per quelli comunali e provinciali. Sono questi i soli ad avere un effettivo ruolo istituzionale, legalmente definito e, quindi, ok per il contenuto della lettera inviatami, ma sia chiaro che quel coordinamento non è legittimato a parlare, come invece lo è quest’altro.
Strano paese, l’Italia: non riesce a varare una legge che dia un minimo potere e un effettivo riconoscimento ai garanti – siano essi del comune, della provincia, della regione o quant’altro – eppure già si apre la lite sulla rappresentatività e la conseguente legittimità a parlare.
Strano paese, dove le forze, anche quelle generosamente impegnante su un terreno non semplice non si uniscono, ma si separano continuamente, pur essendo tutte forze “deboli” perché prive di quei requisiti che possono definirle come tali: la possibilità di illimitato accesso a luoghi e persone recluse, la non limitazione del proprio mandato al carcere bensì a tutte le forme di privazione della libertà da parte di un’autorità pubblica. Tutti i garanti in Italia ancora accedono al carcere non in virtù di un mandato che dia loro un potere di effettivo controllo, ma in virtù di una concessione dell’autorità amministrativa che ne permette l’accesso secondo le procedure adottate per il volontariato. E nessuno di essi può accedere ai luoghi di custodia di polizia, carabinieri, guardia di finanza, che sono i luoghi più a rischio perché riguardano la prima detenzione delle persone, spesso nell’immediatezza e nella drammaticità dei fatti.
Questa carenza di potere indipendente d’accesso si traduce in mancata effettività della propria azione e su questo occorrerebbe unirsi piuttosto che attardarsi a vantare privilegi di alcuni non-poteri su altri non-poteri. La legislatura che si è conclusa non è del resto riuscita a sanare questa carenza del nostro sistema.
La discussione sui poteri delle figure indipendenti di garanzia per le persone private della libertà è invece tema al centro della discussione in molti paesi europei. Recentemente la Francia ha adottato una legge per l’introduzione di una figura indipendente di supervisione delle carceri e il Médiateur de la République ha organizzato un incontro internazionale proprio sulle caratteristiche fondamentali che deve avere un sistema di controllo indipendente: la possibilità di accesso non annunciato a tutti i luoghi di privazione della libertà, la possibilità di colloquio in privato con le persone in essi ristrette, l’accesso a tutta la documentazione necessaria, nel rispetto della privacy delle persone.
Su questi aspetti la discussione è già in fase avanzata in molti paesi, europei e non, dopo che l’Assemblea dell’Onu, ormai cinque anni fa, ha aperto alla ratifica un Protocollo opzionale alla Convenzione contro la tortura (in acronimo, Opcat). Tale protocollo ha istituito un Comitato che – al pari del suo omologo europeo – può liberamente entrare in tutti i luoghi di privazione della libertà di qualsiasi tipo dei paesi che ratificano il protocollo stesso, con i poteri sopra descritti e fare conseguentemente osservazioni e raccomandazioni ai governi. Un potere, questo, finora precluso allo stesso Comitato anti-tortura delle Nazioni Unite che può lavorare solo sull’impianto legislativo, senza avere accesso a luoghi e persone, con una efficacia quindi molto limitata. Un potere che cerca di tradurre su scala globale la ventennale esperienza europea del Comitato per la prevenzione della tortura che compie visite continue e non annunciate nei paesi del vecchio continente.
Per esercitare tale funzione però il nuovo Comitato delle Nazioni Unite ha bisogno di interlocutori locali a cui fare riferimento, giacché non è pensabile un unico organismo su scala planetaria. Per questo ciascuno stato che ratifica il Protocollo deve istituire entro un anno dalla ratifica stessa, un organismo nazionale che abbia, a livello locale, gli stessi poteri che il Comitato ha a livello globale. Da qui la discussione internazionale sulla figura dei garanti, in particolare nei diciassette stati europei che hanno già ratificato il protocollo e stanno definendo il proprio organismo nazionale.
Il discorso internazionale si salda, quindi, con il nostro dibattito interno sui garanti: la costruzione di un sistema reticolare di monitoraggio e controllo indipendente non è più un’esigenza posta da qualche associazione, è un impegno che quando l’Italia ratificherà il Protocollo diventerà stringente. Forse per questo l’Italia dopo averlo votato e immediatamente firmato sta facendo trascorrere il tempo – ormai sono passati più di quattro anni dalla firma – senza provvedere alla ratifica. Ma, questo ritardo, se prolungato, rischia di allinearci impropriamente e sciaguratamente con coloro che si sono guardati bene dal votarlo e firmarlo, perché insofferenti dei controlli e amanti dell’opacità: stati “importanti” per popolazione e spesso per violazioni, dagli Stati Uniti alla Cina, al Pakistan, all’India, alla Russia.

*Presidente Cpt – Comitato europeo per la prevenzione della tortura