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I tossicodipendenti, unitamente agli autori di reati di criminalità organizzata e agli extracomunitari, costituiscono oggi l’"utenza" di gran lunga privilegiata dei nostri istituti di pena. Ma se la permanenza in carcere delle prime due "categorie" si può tranquillamente motivare, in un caso, con una normativa di sbarramento alla fruizione dei benefici penitenziari e, nell’altro, con la mancanza di opportunità extramurarie che, sole, possono consentire percorsi alternativi alla detenzione, il sovraffollamento penitenziario dei soggetti tossicodipendenti è all’apparenza inspiegabile, confliggente com’è con la stessa volontà del legislatore che, nel Testo Unico sugli stupefacenti, ha disegnato una congerie normativa in tutta evidenza ispirata a una sola parola d’ordine: "decarcerizzare".

NOCIVITÀ DELLA DETENZIONE
D’altra parte, la scelta di politica criminale operata dal nostro sistema penale sembra assecondare un topos criminologico ovvio quanto condivisibile: l’esperienza detentiva è comunque nociva per il tossicodipendente, ove il senso della raccomandazione si concentra sull’avverbio. Diversamente dicasi, però, per un’altra e distinta indicazione che a quella prima regola si accompagna e che segna pure come negativa ogni esperienza di penalizzazione della tossicodipendenza; altrettanto raccomandabile, certo, ma a cui il nostro legislatore si è costantemente opposto. Ogni proposito di depenalizzazione, o più in generale di intero ripensamento della penalizzazione della tossicodipendenza, è rimasto sinora irrealizzato su un piano culturale ancor prima che normativo. E se la scelta è quella di non depenalizzare i reati relativi alle droghe leggere, di non rivedere la definizione e l’apparato sanzionatorio delle fattispecie penalmente rilevanti, di non dilatare la portata dell’ipotesi attenuata di cui al 5° comma dell’art. 73 T.U.: allora, tutta la questione sul contenimento dei tossicodipendenti nelle carceri finisce inevitabilmente per riversarsi a "valle", attraverso scelte di politica criminale tutte concentrate sul segmento "ultimo" del lungo e tribolato iter della risposta penale. È solo a partire dalla metà degli anni Ottanta che il legislatore interviene per la prima volta sulla questione dei detenuti tossicodipendenti in esecuzione di pena detentiva, prevedendo per questi un regime speciale di alternatività con l’introduzione dell’art. 47 bis della legge penitenziaria. L’affidamento in prova in casi particolari, nella sua primigenia fisionomia, sembra far fronte a due precise esigenze: da un lato, quella del contenimento del progressivo aumento di soggetti tossicodipendenti nella popolazione detenuta, con conseguente prospettarsi di problemi di governabilità degli istituti penitenziari; dall’altro lato, quella di scongiurare il sempre più frequente verificarsi di situazioni in cui soggetti tossicodipendenti in terapia vengono raggiunti da sentenza irrevocabile di condanna e conseguentemente costretti a entrare in carcere.

I PARADOSSI DELLA RISPOSTA PENALE
L’intervento riformatore della legge "Gozzini" estende poi l’ambito applicativo della misura anche ai condannati, i quali, durante l’esecuzione della pena e prima che questa venga eseguita, maturino la decisione di sottoporsi a terapia. Con l’emanazione del T.U. 309/90, anche la disciplina dell’affidamento in prova in casi particolari viene trasferita nell’organica legge sugli stupefacenti, così evidenziando la differenziazione del trattamento riservato al tossicodipendente con l’enfatizzazione della specificità del fenomeno regolato. Specificità ulteriormente sottolineata dall’introduzione, nel Testo Unico, della misura della sospensione dell’esecuzione della pena detentiva del condannato tossicodipendente, istituto che presenta molteplici elementi di contatto con l’affidamento in prova in casi particolari, differenziandosene soltanto per taluni punti, pur qualificanti. Il fondamento dei due istituti è in ogni caso comune: invece del carcere, la terapia disintossicante, ma sempre nell’ottica della risorsa e della risposta penale. Determinante in questo senso è l’effetto stesso della costruzione sociale della droga come questione criminale, che si offre come irrisolvibile ibridazione della tipologia soggettiva del consumatore di droghe illegali: da un lato, come dipendente, dall’altro, come criminale, ove il primo volto evoca l’infermità e suggerisce la terapia, il secondo la colpa e la rimproverabilità e quindi la pena. Ma la terapia può offrirsi come credibile alternativa solo nella misura in cui essa si realizza in termini adeguati alle esigenze di controllo proprie del sistema di giustizia penale, cioè quando si determinano le condizioni per una delega disciplinare tra sistema penale e sistema socio-sanitario. Tale subordinazione ancillare al penale è nella realtà a noi contemporanea esemplificata dalla comunità terapeutica, istituzione ausiliare ove la terapia è disciplina e controllo, solo a queste condizioni l’alternativa è politicamente agibile.

CURARE PUNENDO, PUNIRE CURANDO
La conseguenza che ne deriva è paradossale: mentre l’alternativa si palesa fallimentare sul fronte di chi riceve la delega, nella impossibilità di curare "punendo", la stessa si apprezza positivamente dal punto di vista del sistema penale, per la ragione inversa di punire "curando". Può definirsi solo pretestuosa la considerazione per cui la scelta terapeutica si fonda comunque sulla finalità special-preventiva della pena, nonché nell’interpretazione riduzionistica di questa come trattamento. Al contrario: in questa disposizione del sistema penale-carcerario verso il sistema terapeutico, centrale risulta piuttosto la scelta premiale per un trattamento "speciale" del condannato tossicodipendente, del tutto autonoma rispetto a ogni considerazione special-preventiva. La questione si è posta soprattutto in tema di affidamento in prova per casi particolari quando, nel tentativo di relazionare tale istituto all’affidamento in prova ordinario, ci si è chiesti se la ratio dell’art. 47 bis sia quella propria delle misure alternative alla detenzione e quindi giustificabile per finalità special-preventive, ovvero sia altra, non orientata al fine risocializzante, ma alla sola induzione, sotto la minaccia del carcere, a una pratica terapeutica. La dottrina più attenta ha unanimemente propeso per quest’ultima ipotesi, confortata da una prassi giurisprudenziale a questo proposito inequivoca nel sottolineare che la disciplina dell’affidamento in prova per il tossicodipendente consente di poter fruire di questo percorso di alternativa al carcere svincolando la concessione della misura da ogni prognosi favorevole di non recidività. Ogni valutazione in termini di special-prevenzione viene così costituita dalla mera attestazione "tecnica" di idoneità del programma terapeutico al fine della disintossicazione.

DECARCERIZZARE: FINTA ALTERNATIVA
In questo senso si sono letti i percorsi di alternatività per il condannato tossicodipendente alla stregua di un "diritto speciale", ove questa specialità, interpretata in accezione tecnocratica, finisce per disegnare esclusivamente uno strumento di decarcerizzazione per sole ragioni di governabilità dell’istituzione carceraria. Strumento di decarcerizzazione che, però, si è nei fatti mostrato incapace di raggiungere il proprio scopo. Il che ci riconduce al quesito di partenza: come è possibile che la maggioranza dei detenuti tossicodipendenti sia in carcere quando, per volontà della legge, dovrebbe essere in regime di affidamento o in sospensione dell’esecuzione? Le ragioni mi paiono plurime e complesse, ma ancora una volta unanimi nel segnare il fallimento di ogni scelta di decarcerizzazione in costanza di una politica di penalizzazione: per un tossicodipendente condannato a pena breve, la scelta terapeutica si presenta spesso come meno "eleggibile" del carcere; per chi è in attesa che altri procedimenti a suo carico si definiscano, ovvero ritiene che in futuro potrà nuovamente incorrere nei rigori della legge, è prudente non bruciarsi subito una chance della alternativa al carcere, sapendo di non poterne usufruire più di un certo numero di volte; per chi non ha l’assistenza di un difensore di fiducia, è davvero arduo attivarsi con disinvoltura negli oscuri meandri del processo di sorveglianza; per chi vorrebbe (e potrebbe) optare per la scelta terapeutica, infine, questa viene sovente a mancare poiché il livello di ricettività non è in grado di farsi carico di tutti.

LIMITI DEI DISEGNI DI LEGGE
Secondo la chiave di lettura che ho qui indicato, anche l’efficacia decarcerizzante dei recenti disegni di legge (uno a firma Folena e altri e un altro presentato da Mantovano e altri) non deve essere troppo sopravvalutata. Entrambi mi paiono lodevoli nel tentativo di razionalizzare la disciplina, ma pagano la necessità di inserirsi su un tessuto normativo preesistente e fortemente limitato e limitante. Significativo, poi, che la contrapposizione ideologica tra le due iniziative sia esplicita nelle note che le accompagnano, ma assai meno evidente nel testo delle proposte di legge, quasi che – date per inamovibili le coordinate di riferimento – il risultato finale non possa poi essere di molto divergente. Non è questa la sede per un commento esegetico dei due disegni di legge: basti qui sottolineare come entrambi manifestino la necessità di sottrarre l’iter procedurale dalla sin qui necessaria attivazione dell’interessato e da ogni discrezionalità del PM e del giudice di sorveglianza nel sospendere l’ordine di esecuzione, nella comune convinzione che ciò possa agevolare un ricorso numericamente più elevato ai percorsi di alternatività. Qualche dubbio sorge, però, quantomeno relativamente alla tecnica normativa adottata a tal fine. Interessante, nella proposta di legge del 30 gennaio 1998 (Folena e altri), l’abolizione di ogni limite di pena quale elemento ostativo alla concessione tanto dell’affidamento in casi particolari, quanto della sospensione dell’esecuzione della pena. Scelta per certi versi lodevole, e forse capace di contribuire in concreto a ridimensionare il numero dei tossicodipendenti nelle carceri, ma che tradisce ulteriormente, e in termini ancor più espliciti, lo spirito tutto umanitario e premiale, affatto social-preventivo, della disciplina. Nella stessa direzione si muove la scelta di ricomprendere, tra le strutture autorizzate a svolgere programmi terapeutici, anche quelle cosiddette "semiresidenziali", l’unico punto su cui, a ben vedere, la proposta di legge della sinistra si pone davvero in aperto contrasto con quella del Polo. Solo un disincantato approccio tecnocratico, per cui il governo amministrativo del controllo penale tende a costruirsi intorno a obiettivi sistemici che divergono radicalmente dall’uso politico-simbolico della penalità, può però a mio avviso tollerare questa ulteriore divaricazione tra esigenza decarcerizzante e politica di penalizzazione. Fuori da questo quadro di riferimento, ogni politica di decarcerizzazione svincolata da serie opzioni di depenalizzazione (o, quantomeno, di effettivo contenimento della penalità) mi pare per sua natura già perdente in partenza.

* Assistente di diritto penitenziario, Università di Bologna