La cannabis è una sostanza psicoattiva e come tale ha dei sicuri effetti a livello cerebrale. Quello che si dibatte è se a questi effetti corrispondano dei possibili danni o delle alterazioni nel sistema nervoso. Può cioè la cannabis produrre i “buchi nel cervello”? Sicuramente questa affermazione si è dimostrata efficace nel creare allarme sociale e periodicamente viene riproposta con toni terroristici per stigmatizzare il consumo giovanile. In Italia gli alfieri di questa crociata sono stati Giovanardi e Serpelloni.
Gli scienziati si sono messi d’impegno (Gillespie e coll., Addiction 2018) e hanno sottoposto a risonanza magnetica due ampie popolazioni di utilizzatori “ludici” di canapa, australiani e statunitensi. Poi hanno misurato i volumi di sette zone cerebrali (nello specifico, si tratta del talamo, il nucleo caudato, il putamen, il pallido, l’ippocampo, l’amigdala e il nucleo accumbens), ma non hanno trovato alcuna variazione statisticamente correlata all’uso della sostanza. Al contrario, l’uso ripetitivo di nicotina era associato a una riduzione del volume del talamo nei maschi di media età.
Anche un altro gruppo di ricercatori (Thayer e coll. Addiction 2017) ha provato di recente a cercare i buchi. In questo caso sono stati misurati il volume della materia grigia cerebrale e l’integrità della materia bianca in un ampio gruppo di adolescenti e adulti (circa 1300 persone totali) utilizzatori di alcol o cannabis e sottoposti a indagini neuroradiologiche. Mentre l’alcol ha dimostrato di interferire con ambedue le parti del cervello, non è stata dimostrata alcuna associazione con l’uso di cannabis.
Pure nel 2015 si erano cercate anomalie cerebrali dovute alla cannabis (Weiland e coll. J Neurosci 2015). Ancora una volta nei soggetti, studiati con la risonanza magnetica, non era stata evidenziata nessuna differenza fra utilizzatori ludici e non utilizzatori sia nel volume che nella forma delle zone del cervello coinvolte nella risposta ai cannabinoidi.
Nel 2017 si è cercato qualcosa di più specifico, con uno studio “longitudinale”. Un gruppo, cioè, di utilizzatori “pesanti” è stato sottoposto a risonanza per misurare il volume dell’ippocampo; dopo un periodo di 39 mesi è stato fatto un nuovo esame, e non sono state trovate variazioni nel confronto con un gruppo di controllo (Koenders e coll. J Psychopharmacol 2017).
Naturalmente la mancanza di “buchi” od anomalie non implica che non ci possano essere variazioni della funzionalità dei neuroni, e quindi, in definitiva della funzionalità cognitiva.
Questa è stata studiata in una rassegna sistematica e metanalisi appena pubblicata (Cobb Scott e coll. JAMA Psichiatry 2018). Sono stati presi in rassegna 69 studi e il risultato è che l’esposizione alla cannabis negli adolescenti e nei giovani adulti è associata solo a effetti residui negativi minimi, di dubbia rilevanza clinica, e che inoltre basta astenersi dal consumo per 72 ore per ridurli a un livello non significativo. Risultati simili erano stati ottenuti da recenti studi effettuati su gemelli “discordanti” riguardo l’uso di cannabis: non era stata dimostrata riduzione del quoziente di intelligenza, danno alle funzioni esecutive o riduzione delle performance educative (Mocrysz e coll. J Psychopharmacol 2016, Jackson e coll. PNAS 2016, Meier e coll. Addiction 2018).
In definitiva, allo stato attuale degli studi, la ricerca dei “buchi nel cervello” ha dimostrato che siamo di fronte ad affermazioni di pura propaganda senza evidenza scientifica.
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