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Quest’anno a Vienna si respirava un’aria diversa: è il parere concorde dei «veterani» della Cnd (Commissione sulle droghe narcotiche), l’organismo assembleare di indirizzo politico sulle politiche globali delle droghe che si riunisce ogni anno nel palazzo dell’Onu sulle rive del Danubio. Diversa perché meno ingessata, in primo luogo. A movimentarla hanno contribuito le rappresentanze delle Ong, convenute in forze per l’avvio del dibattito sulla strategia decennale lanciata a New York nel 1998 (quella – non va mai scordato – che mirava a «eliminare o significativamente ridurre» l’offerta e la domanda delle principali sostanze illecite in dieci anni).
Per la prima volta, voci della società civile si sono udite in plenaria a rivendicare nuove politiche di fronte alle delegazioni di tutto il mondo. Non è stata una presenza indolore: a Deborah Small per esempio è stata tolta la parola «perché fuori tema» proprio quando stava denunciando la violazione dei diritti della gente di colore perpetrata negli Stati Uniti in nome della guerra alla droga. Deborah si è ritirata con calma e dignità, facendo risaltare ancora di più per contrasto l’insolente goffaggine della presidenza di turno. Un primo guadagno è certo: finalmente il tema delle droghe è stato declinato dal versante dei diritti umani e della salute, non solo del crimine e della repressione.
I pletorici apparati degli Interni e della Giustizia, da sempre «di casa» al Vienna International Centre, per una volta hanno perso il monopolio della scena. Il risultato non è frutto di un’improvvisa folgorazione dei vertici delle Nazioni unite, bensì di un lungo lavorio ai fianchi ad opera delle Ong harm reductionist e di alcuni paesi «illuminati». Soprattutto ha spostato la presa di posizione avanzata dell’Unione Europea sotto la presidenza slovena, ripresa in molto interventi compreso quello del ministro Ferrero.
L’introduzione di Antonio Costa è indicativa delle aperture, ma anche dei punti invalicabili di resistenza. Le prime: una maggiore attenzione alla società civile e alle organizzazioni che la rappresentano; il richiamo ai paesi membri perché investano di più nello sviluppo alternativo dei paesi che coltivano piante illegali (ma senza dire una parola sul danno della eradicazione forzata); la messa al centro dello Health Principle, quale bussola dell’intero sistema di controllo della droga; lo «sdoganamento» della riduzione del danno (ma senza rinunciare ad annacquarla col solito giochetto retorico del «tutto è riduzione del danno» compresa la lotta al traffico); il riconoscimento che la politica della droga è associata per lo più ai sequestri e agli arresti a scapito della prevenzione e del trattamento; last but not least, la denuncia della scarsa attenzione prestata ai diritti umani e l’invito a «considerare seriamente se la pena di morte per i reati di droga sia la pratica migliore» (ma senza denunciare chiaramente la sproporzione e l’ingiustizia della pena capitale per droga).
Il punto principe di resistenza è la mancata presa d’atto che gli obiettivi di New York non sono stati raggiunti. Anzi, Costa ha rivendicato il «contenimento» del problema in virtù del regime di proibizione, ricorrendo al solito paragone a effetto (e di nulla sostanza scientifica) fra i «pochi» addicted alle sostanze illegali a confronto dell’enorme numero di «drogati» per alcol e tabacco.
Per arrivare a dire che «nessuna delle convenzioni delle Nazioni unite ha mai raggiunto risultati così considerevoli» (sic!).
Il messaggio dell’establishment è chiaro: disponibili ad aggiustare la rotta, non ad invertirla. A queste condizioni, vale la pena di salire a bordo? Al momento le Ong riformiste si sono imbarcate: lasciando a terra la denuncia del fallimento delle convenzioni, per infilarsi nelle contraddizioni del sistema e negli spiragli aperti; ma senza abbassare lo sguardo dall’orizzonte, dominato dal tema «radicale» dei diritti umani dei consumatori. La vera novità politica di Vienna 2008 è l’uscita della droga dalla settorialità: i classici cavalli di battaglia del riformismo, dalla riduzione del danno al «riequilibrio» strategico a favore del versante sociosanitario, sono stati reinquadrati nel generale political issue dei diritti umani.
È il secondo guadagno, perché ha inserito una zeppa nel tradizionale fronte dei «duri», che vedeva insieme paesi democratici e totalitari in nome della «guerra alla droga»: dagli Stati uniti alla Russia e alla Cina, passando per il Giappone e la Nigeria. L’irrompere sulla scena dei diritti umani ha reso più imbarazzanti certe alleanze, e ha inasprito lo scontro. Così la risoluzione che auspicava «l’integrazione del sistema dei diritti umani delle Nazioni unite nella politica di controllo sulle droghe» è stata fieramente osteggiata da un gruppo di paesi totalitari capeggiati dalla Cina, ma gli Stati uniti sono stati costretti a fare un passo indietro. All’ultimo tuffo si è trovata una mediazione, a patto però di eliminare l’auspicio a non applicare la pena di morte per reati di droga (sul punto Cuba si è messa di traverso).
Questione scottante la pena di morte, affrontata anche in una iniziativa a margine della plenaria. Rick Lines (International Drug Policy Consortium e International Harm Reduction Association) ha fornito dati inediti: non solo la pena di morte è comminata in maniera del tutto arbitraria (in alcuni stati basta la detenzione di  2 grammi di eroina, per altri ce ne vogliono 250 chili), è anche il trend a preoccupare: fra i paesi non abolizionisti (in diminuzione) cresce però il numero di quelli che applicano la pena capitale per i reati di droga. Per non dire delle uccisioni senza processo e senza condanna quali quelle commesse dal governo tailandese nella «guerra» alle droghe sintetiche del 2003/2004, perfino con vittime innocenti quali bambini. La delegazione tailandese, presente in massa al briefing, si è difesa sostenendo «che i trafficanti si erano uccisi fra di loro». Inoltre ha assicurato che nel futuro i diritti umani saranno rispettati, ma c’è comunque molta preoccupazione a livello internazionale per le reali intenzioni del governo, che proprio in questi giorni ha annunciato l’avvio di una nuova «guerra alla droga».
La «contaminazione» fra lo Unodc e le altre agenzie Onu orientate alla salute è l’altro cavallo di Troia per sottrarre le droghe all’ottica criminale e far passare la riduzione del danno. Sconvolgente la denuncia di Unaids: meno del 20% di chi assume droghe per via iniettiva riceve una qualche forma di prevenzione per lo Hiv, e ancora meno ricevono metadone e siringhe pulite.
Da segnalare l’intervento del ministro Ferrero: senza giri di parole ha condannato l’eradicazione forzata e ha appoggiato la Bolivia nella difesa dell’uso tradizionale della foglia di coca, attaccato dal Rapporto annuale di Incb. Quanto a quest’ultimo, ha dovuto incassare risposte puntuali e piccate anche da olandesi, tedeschi e svizzeri, richiamati al rispetto delle convenzioni per la «infrazione» delle stanze del consumo. «Quando le convenzioni sono state scritte, l’infezione da Hiv non esisteva – ha scandito gelido il delegato svizzero – e lo Incb dovrebbe avere maggiore trasparenza nel suo lavoro». Si comincia a capire per chi suona la campana.