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«Le colpe dei mariti non devono ricadere sulle mogli, ma siamo contrari alla sua candidatura per una questione di opportunità». Così Giovanni Berardi, presidente dell’Associazione vittime del terrorismo, ha lanciato la campagna contro  Elisabetta Zamparutti, militante radicale e compagna di Sergio D’Elia. Berardi comincia col mettere le mani avanti, ma la caduta è rovinosa lo stesso. Se le mogli non hanno da espiare i peccati dei mariti, perché allora colpire Zamparutti? La risposta è lapalissiana: solo per la giustizia la colpa è individuale ma l’alone della vendetta non distingue fra vittime e innocenti, fra passato e presente. E le maledizioni si allungano nel futuro.
Un leit motiv ricorrente per non chiudere con gli anni di piombo è che ci sarebbe bisogno di verità. I trent’anni dall’assassinio di Aldo Moro hanno riempito gli scaffali di volumi, per non parlare delle migliaia di pagine degli atti processuali. La realtà è che non si vuole ricostruire la storia violenta dell’Italia dalla strage di Piazza Fontana in poi, ma solo mettere alla gogna i protagonisti  della lotta armata di sinistra rimuovendo il resto. Accade così che si ricordino solo alcuni morti e altri, quelli delle stragi sui treni, subiscano una iniqua rimozione. In due anni si è compiuta la messa al bando civile di persone come Susanna Ronconi e come Sergio D’Elia, animatore di Nessuno tocchi Caino e protagonista della battaglia per la moratoria della pena di morte. Il veto alla sua candidatura nelle liste del Partito democratico  è stato un tributo alla sconfitta dei principi della Costituzione. È come aver detto che l’articolo 27 sul senso della pena è carta straccia. Ormai si teorizza che non basta avere espiato la pena; e neppure essersi dissociati da errori e orrori; e neppure essere impegnati nelle migliori battaglie civili, per essere reintegrati nella società.
Adesso si è arrivati perfino alla maledizione della stirpe.
Basta la settima generazione?