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La politica di riduzione dei rischi e dei danni da uso di sostanze o da comportamenti genericamente definibili come compulsivi ha la caratteristica di accettare, come base di partenza per la sua stessa impostazione, l’esistenza di persone che adottano, appunto, questi comportamenti. Esula dall’impostazione di questi ragionamenti l’ipotesi e la possibilità di risolvere radicalmente simili comportamenti, non già per il fatto che necessariamente essi siano accettati o condivisi, ma semplicemente per una presa d’atto della loro esistenza. Questa posizione compromissoria non ha mai goduto nel nostro paese di molta fortuna, appartenendo noi, a grandi linee, alle culture che definirei integraliste o massimaliste, assolutamente meno realistiche. La riduzione del danno si pone all’interno di una proposta politica di “presa d’atto” dell’esistente, e da qui si parte. Ovviamente, queste considerazioni non negano prospettive evolutive, verso la liberazione da questi comportamenti, o verso la piena legittimazione degli stessi, a seconda dei punti di vista: parte e agisce o, meglio, propone dei principi per agire, nel contesto della realtà attuale.
Nonostante le difficoltà culturali, in Italia si è andata consolidando nel tempo una prassi operativa e anche ideologica adeguata per ciò che riguarda la riduzione del danno rivolta a persone dipendenti, spesso in grave condizione di marginalità sociale: anche se con orizzonti sempre più ristretti per la contrazione dei finanziamenti e la sempre minore accettazione dell’esistente, questa prassi è in grado, con poche integrazioni, di continuare ad operare in modo adeguato. Ben diversa mi sembra essere la situazione per quanto riguarda la riduzione dei rischi, che dovrebbe essere rivolta a consumatori che non necessariamente seguono un modello di consumo intensivo/dipendente: c’è una grande quantità di persone che presentano comunque comportamenti intrinsecamente rischiosi, per utilizzo di sostanze, o adozioni di stili di vita. Questa grande quantità di cittadini, che raramente frequenta piazze o strade, se non per spostarsi da un posto all’altro, non è per così dire visibile, anzi, cerca di restare invisibile, e di mantenere segreto il proprio comportamento, o noto a pochi; è quindi difficilmente intercettabile, ma non per questo meno esposta a rischi. Ovviamente qui si è ben lontani dal voler lanciare campagne di caccia all’uomo o alla donna che nell’intimità delle loro vite scelgono di estraniarsi con il gioco, o con il piacere, prodotti in vari modi: vorrei solo evidenziare che anche per queste situazioni potrebbe essere sensato cominciare a pensare alla costituzione di occasioni, possibilità, od altro dove questi cittadini possano confrontarsi, valutare, riprendersi ed esaminare la loro situazione.
Queste possibilità non esistono nell’orizzonte degli interventi praticabili e proponibili nel nostro paese dai servizi sanitari e sociali (tranne che in quelli a pagamento). Per superare questa carenza, penso che si debba fare un doloroso passaggio: l’utilizzo di sostanze, lecite o no, l’adozione di comportamenti, leciti o no, possono esporre a rischi in ogni loro singolo utilizzo, in ogni loro singola esperienza, e non solo o non tanto perché generano o hanno generato dipendenza. Naturalmente, mi guardo bene dal dire che ogni singola esperienza porta a danni, mi limito a dire che può portare a danni. Noi non possiamo non pensare che esistono molte persone per le quali l’uso di una certa sostanza può essere nocivo, accanto ad un numero molto più grande per le quali questa sostanza nociva non è, e molto probabilmente non lo diventerà. E non possiamo non prendere atto che in queste situazioni queste persone non sanno a chi rivolgersi.
La cooperativa “Lotta contro l’emarginazione” di Milano sta elaborando i dati raccolti nella sua attività notturna in Valtellina in un periodo di quattro anni. Circa il 30% degli intervistati riferisce disturbi da sostanze, e nessuno dichiara di essersi rivolto a medici o presidi sanitari in generale. Quanto appena detto è sicuramente il risultato di impostazioni di legge repressive che hanno avuto la “splendida” conseguenza di far fuggire i possibili utenti dai luoghi di cura, anche per la confusione e l’approssimazione con le quali le procedure sono state applicate: in ogni modo, la fuga è avvenuta ed ora dobbiamo tentare di integrare nei servizi risposte anche verso questi utenti. Tanto per fare un esempio: quanti lavoratori giocano alla fine della giornata per rilassarsi, e dilapidano non poco del loro stipendio! Io mi guardo bene dall’assumere atteggiamenti di sapiente moralismo, ma vivo abbastanza con la gente da sentire e sapere quanta sofferenza oramai è legata a questi comportamenti. E proprio perché vivo con la gente, penso che si debba cominciare ad immaginare occasioni adeguate per una presa in carico precoce delle necessità di questi cittadini.
Dicevo sopra che nel nostro paese è molto diffusa un’ideologia tendenzialmente massimalista, e molto poco propensa all’analisi del reale. Da qui noi dobbiamo però partire, dal conoscere e riconoscere le necessità, e proporre risposte. Risposte che non possono essere sempre protese alla “guarigione”, all’abbandono del comportamento; oppure possono anche tendere all’abbandono del consumo, accettando però che un conto è una “tensione verso”, un conto è l’ottenimento di quel traguardo o di quel risultato. Per chi ha rapporti con giovani (che oramai superano, però, i quaranta anni) è facile capire quanto questi comportamenti siano per loro importanti: l’abbandono, o la modifica di questi, è un atto molto spesso spontaneo e lento, che coincide con l’evolvere e la riorganizzazione della propria vita. È quindi evidente che debba esserci grande rispetto nel proporsi e nel relazionarsi con loro: ciò posto, però, è anche altrettanto evidente quanto possa essere importante per i giovani poter avere occasioni di confronto ed incontro con persone diverse dai loro compagni di stili di vita. E questo vale soprattutto all’inizio ed alla fine del percorso di vita, in cui si mettono in atto tali comportamenti.
Ben poco è stato fatto finora in questa direzione. Vorrei accennare come esempio al sistema “allarme rapido”, per l’analisi delle sostanze in circolazione: anche nelle regioni dove si è proceduto con programmi tesi alla costituzione di servizi di “allarme rapido” non si è andati oltre la possibilità di avere accesso ai dati forniti dalle forze dell’ordine e derivanti dalle analisi eseguite sul materiale sequestrato. Nulla è stato fatto verso una effettiva e celere possibilità di procedere ad analisi di sostanze reperite sulla piazza, o dai consumatori, e comunque di origine diversa da quelle frutto dei sequestri. Eppure questo è il solo modo per avere conoscenze il più possibile adeguate sulle sostanze effettivamente in circolazione. Nulla comunque, o quasi, è stato fatto per permettere ai consumatori di avere le poche conoscenze che l’attuale organizzazione di questi servizi permette. Bisogna poi aggiungere che le nuove modalità di assunzione, molto più private, rendono ancora più frammentato il mondo del consumo e quindi anche quello dello spaccio: diventa perciò sempre più necessario attivare canali che mettano in contatto con le sostanze effettivamente in circolazione, e non solo con quelle sequestrate.
Per delineare in sintesi le linee di sviluppo della “riduzione dei rischi”: una sensibilizzazione dei servizi pubblici e privati, sociali e sanitari, dal 118 ai pronto soccorso, ai centri antiveleno, all’aggiornamento delle differenti specializzazioni mediche, all’offerta di luoghi il più possibile neutri (ma tecnicamente eccellenti), alla sensibilizzazione dei medici di base: affinché i cittadini che adottano stili di vita a rischio possano incontrare contributi utili per la loro evoluzione.