Si è da poco tenuto a Roma il Convegno finale del Progetto I.Ri.D.E. 2, una ricerca intervento sui modelli di intervento di Riduzione dei rischi di trasmissione di Hiv nella popolazione carceraria, finanziato dal Ministero della Salute.
Poiché nel mondo la prevalenza di Hiv, di Infezioni Sessualmente Trasmesse (Ist), di epatite B e C (Hbv, Hcv) tra la popolazione detenuta è almeno doppia rispetto a quella tra la popolazione generale, nel 2013 le agenzie Onu competenti (Unodc e Oms) hanno pubblicato linee guida che raccomandano un’azione comprensiva, attraverso 15 interventi chiave: tra questi, la messa a disposizione dei detenuti di siringhe sterili o disinfettanti, nonché di preservativi. Nasce da qui e dal successivo progetto Ue per valutare l’applicazione delle raccomandazioni Onu in alcuni paesi europei, Italia inclusa, l’idea del progetto I.Ri.D.E., portato avanti da molte Ong (capofila Cnca) in collaborazione con l’Università di Torino. Il progetto si è posto l’ambizioso obiettivo di sperimentare interventi di riduzione del danno e del rischio di trasmissione di Hiv e di altre Ist, che la letteratura scientifica ha mostrato essere efficaci ma che non ancora presenti nel nostro Paese. Ciò nell’ambito di un concetto ampio di salute, in cui l’attenzione all’ambiente e alle condizioni di vita del detenuto, nonché il rispetto dei suoi diritti, hanno un ruolo chiave, insieme all’adeguatezza dell’offerta sanitaria nel principio dell’equivalenza delle cure, dentro e fuori le mura delle prigioni.
Il convegno ha presentato alcune esperienze significative, come quella di Barcellona in cui sono attivi programmi di scambio siringhe rivolti detenuti tossicodipendenti e di distribuzione di profilattici; e quella italiana di Lecce, dove è stato aperto un laboratorio di tatuaggio: i detenuti hanno potuto apprendere le tecniche appropriate ma soprattutto hanno capito l’importanza di utilizzare strumenti sterili e sicuri.
La parte di ricerca, svolta dal dipartimento di Giurisprudenza di Torino su un campione di penitenziari (81 Istituti rispondenti su 167) ha messo in luce alcune carenze, fra cui: non sono sempre sono garantite l’equivalenza delle cure e la continuità della cura tra dentro e fuori dal carcere; i comportamenti a rischio sono spesso minimizzati; non sono a disposizione i dati sulle trasmissioni di malattie infettive all’interno del carcere; c’è ingerenza di “questioni penitenziarie” sulla cure sanitarie (in un terzo degli istituti si tiene conto del fine pena per decidere il tipo di trattamento da somministrare). Infine, incidono negativamente sulla salute le condizioni ambientali precarie: nel 18% dei casi non sono garantiti i tre mq a persona da regolamento nelle celle, nel 10% dei casi il wc non è in ambiente separato, 9 istituti sono senza riscaldamento.
Persistono inoltre tabù culturali e pregiudizi. Uno dei maggiori ostacoli con cui si è scontrato il progetto è lo scetticismo (perfino a volte da parte del personale sanitario) sulla validità degli interventi raccomandati dall’Oms, nonostante le evidenze scientifiche. In diversi casi, la prevenzione Hiv non è considerata fra le priorità della salute in carcere.
Ciò nonostante, il progetto ha svolto un’opera di sensibilizzazione importante e laddove si sono svolte sperimentazioni, queste sono state accolte positivamente, in primis dai detenuti.
Il progetto ha “aperto” le porte del carcere alla Riduzione del Danno, che ricordiamo essere tra gli interventi raccomandati dal Piano di Azione 2017-2020 della strategia politica sulle droghe dell’Unione Europea. Per spalancarle, sono ora necessari interventi congiunti del Ministero della Salute con quello della Giustizia.