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Il formalismo dei giuristi, e dei giudici in particolare, riserva ogni giorno qualche nuova sorpresa, per lo più spiacevole. L’ultima dice che se un ragazzo (o un maturo signore) acquista o porta con sé da un viaggio in Olanda o riceve in regalo da un amico una piccola quantità di hashish per fumarselo in santa pace non commette reato (pur residuando un illecito amministrativo), mentre se quella sostanza se la procura con il “fai da te”, cioè coltivandosela in giardino o sul balcone, deve essere punito con il carcere come un trafficante di cocaina ai sensi dell’art. 73 del testo unico n. 309 del 1990

(e successive modifiche), la cui rubrica recita, un po’ grottescamente dati gli esiti a cui conduce, «produzione e traffico illecito di sostanze stupefacenti o psicotrope». Purtroppo non è uno scherzo ma la realtà conseguente all’intervento congiunto di un legislatore crudele e distratto (che non si cura di dettare norme chiare e razionali) e di una magistratura di legittimità disinteressata agli interessi materiali sottostanti alle decisioni, considerate poco più che un gioco di abilità enigmistica. I termini del problema sono semplici.
Il legislatore, nell’individuare, all’art. 75 del testo unico, le ipotesi di esclusione della illiceità penale del possesso di stupefacenti, fa riferimento alla condotte di «importazione», «acquisto» o «detenzione» di stupefacenti per uso personale. Tra le condotte indicate non è espressamente menzionata la «coltivazione» e ciò ha aperto, tra i supremi giudici della Corte di cassazione, una annosa querelle.
La giurisprudenza prevalente, fondandosi sul dato letterale della norma e temendo forse indicibili abusi, ha stabilito che la coltivazione di piante da cui possono ricavarsi sostanze stupefacenti rientra nell’ambito applicativo dell’art. 73 del dpr n. 309 e che è irrilevante ai fini penali la destinazione ad uso personale della coltivazione (così la quarta sezione penale, nella sentenza 17 ottobre 2006, Quaquero e altro e la sesta sezione penale, nella sentenza 15 febbraio 2007, Casciano). Con sano buon senso e altrettanto acume giuridico un collegio della sesta sezione, chiamato a pronunciarsi su un caso di condanna per la coltivazione di cinque piantine di marijuana, ha, peraltro, cambiato orientamento, annullando la condanna e affermando una cosa tanto ovvia quanto coerente con il sistema, e cioè che

«la coltivazione di piante da cui possono ricavarsi sostanze stupefacenti, che non si sostanzia nella coltivazione in senso tecnico-agrario ma rimane nell’ambito concettuale della cosiddetta coltivazione domestica, ricade nella nozione della detenzione, sicché occorre verificare se, nella concreta vicenda, essa sia destinata ad un uso esclusivamente personale del coltivatore» (sentenza 18 gennaio 2007, Notaro).
La decisione è all’evidenza saggia ma, determinando quel che si chiama un «contrasto giurisprudenziale», ha provocato l’intervento risolutivo del massimo organo di legittimita, cioè le sezioni unite della stessa Corte di cassazione. Così, nell’aprile scorso, è arrivato il verdetto: saggezza e buon senso sono stati archiviati ed è stato riconfermato che tenere sul balcone un vaso con una maledetta piantina è un comportamento criminale e meritevole di essere punito con il carcere… Ora aspettiamo la motivazione della sentenza, ma intanto occorre ricominciare a ragionare. Il clima politico e il formalismo giuridico imperante non promettono niente di buono nei tempi brevi e neppure nei tempi medi. Ma mettendo in circolo idee e intelligenza anche la giurisprudenza può cambiare. Altre volte è accaduto.