Anche questa tornata elettorale in USA ha dato una spinta dal basso al cambio di politiche sulla cannabis, con tanto di colpo di scena finale. Come succede ormai da venti anni alle elezioni federali si sono abbinati numerosi referendum che avevano come oggetto la cannabis. Martedì 6 novembre i gli elettori sono stati chiamati a esprimersi in Michigan e North Dakota sull’uso ricreativo, in Missouri e nello Utah su quello terapeutico.
Al termine dello spoglio si è registrata una vittoria in Michigan, 56% a 44%. Lo stato del Midwest diviene così il decimo a legalizzare l’uso ricreativo. Le norme permetteranno ai maggiori di 21 anni di possedere e coltivare piccole quantità di cannabis, nonché implementeranno un sistema di licenze commerciali per produzione e vendita di cannabis e derivati. La tassazione è fissata al 10%, un valore inferiore agli altri Stati, che consentirà di vedere crescere una fiorente industria della cannabis. Sconfitta invece, con un risultato negativo che è andato oltre le previsioni (60 a 40), l’analoga iniziativa in North Dakota.
Salgono a 33 gli stati che hanno introdotto normative che regolano l’uso legale della cannabis a fini terapeutici. Dopo l’Oklahoma lo scorso giugno, Utah e Missouri hanno approvato le proposte di legalizzazione. Nel primo caso la proposta è passata con il 53% di favorevoli, mentre in Missouri il margine è stato molto più ampio (65 a 34). Di particolare valore il successo in Florida, dove attraverso un referendum sono state riammesse al voto un milione e quattrocentomila persone condannate per crimini non violenti. Fra queste moltissime per possesso di droghe, in particolare cannabis.
Se il fronte antiproibizionista gioisce, quello proibizionista ha visto perdere nel round elettorale anche uno dei suoi paladini alla Camera. Quel Pete Sessions, in carica dal 1997 ed omonimo dell’Attorney General Jeff, che ha perso il proprio seggio in Texas a favore di Colin Allred, democratico schieratosi per la decriminalizzazione della cannabis e per l’accesso a quella terapeutica. Per Justin Strekal di NORML “Pete Sessions è stato da solo il più grande impedimento perché alla Camera non passassero misure per la riforma delle leggi sulla cannabis”. Sessions infatti, occupando un ruolo chiave nel “Rules Committee” ha impedito sul nascere una serie di emendamenti per la cannabis terapeutica ai veterani o per l’accesso al sistema bancario dell’industria della cannabis legale, oggi impedito in quanto attività illegale a livello federale. “La sua bocciatura apre le porte per attuare significativi interventi legislativi” ha concluso Strekal.
Ma il vero colpo di scena è avvenuto il giorno dopo le elezioni, quando il Presidente Trump ha annunciato il siluramento dell’altro Sessions, il Ministro della Giustizia. Cancellando il memorandum Cole, a gennaio minacciava di intervenire contro gli Stati che hanno legalizzato l’uso ricreativo. Prima aveva ripristinato l’obbligo per i giudici di comminare la massima pena possibile, spesso draconiana, anche per crimini non violenti legati alle droghe, come il semplice possesso. Si tratta di una operazione con ben altri fini (salvaguardare la tenuta presidenziale sul Russiagate), ma è evidente che si ripercuoterà anche sull’atteggiamento federale sulle sostanze. “Si deve cogliere l’occasione per correggere gli errori di Sessions” ha dichiarato Maria McFarland Sánchez-Moreno, della Drug Policy Alliance sottolineando l’importanza del momento. Il sostegno bipartisan rispetto al progetto di legge federale per mettere al riparo le legalizzazioni statali è sempre più forte. Così la strada verso ipotesi di riforma delle politiche sulle droghe in USA sembra oggi meno irta di ostacoli.