L’erba di Grace è un bel film, vero. Intelligente e dichiaratamente antiproibizionista. Molti, in Inghilterra come in Italia, sono andati a vederlo e ne hanno tratto una logica conseguenza: siamo sulla buona strada, nella battaglia di conoscenza e di trasparenza sugli effetti non solo non nocivi, ma anche terapeutici delle cosiddette “droghe leggere”. Ma negli Usa – e cioè nel cuore dell’impero mediaculturale che produce le mode e le tendenze – lo stesso argomento viene trattato come sempre.
“Wonder boys” (112 m., colore, Warner Bros, genere commedia, anno di uscita il 2000), film magistralmente interpretato da Michael Douglas e Tobey Maguire: tratto da un romanzo di Michael Chabon e diretto da Curtis Hanson, è un film di cui basta raccontare la trama per capire quanto sia stato pensato e diretto per rappresentare e militare esattamente nell’altro campo, sul tema droghe, quello, appunto, del “proibizionismo”. Il protagonista di “Wonder boys”, infatti, fuma in continuazione spinelli, è stato – anche a causa del suo “vizio” – appena mollato da sua moglie, ha una relazione segreta con la sua preside (sposata), e ha pubblicato, troppo tempo fa, un best seller che lo acclamò miglior romanziere americano dell’anno. Ora è in preda al blocco dello scrittore e lavora a un elefantiaco manoscritto mai finito. Il professor Grady Tripp (“trip”, magari, nel senso di viaggio interiore, allucinato, senza meta?), cinquantenne wasp fin troppo illuminato, insegna socraticamente creative writing al college, è dunque in piena crisi esistenziale e creativa, demotivato e confuso. In occasione dell’annuale e rituale festival letterario che si tiene in città e al quale partecipa anche il suo dispersivo e sessualmente polimorfo editore newyorkese, si ritrova – in parte consenziente e in parte no – in balia del temperamento di James Leer, mentre sta – tanto per cambiare – fumando uno spinello nel giardino, insoddisfatto di sé e della sua vita, incapace di scrivere e amare, anche perché “fuma” in continuazione…
Ma Leer, il suo più dotato studente, aspirante romanziere e bugiardo compulsivo, è sì una personalità eccentrica che lo trascina in una serie di avventure e traversie tra il grottesco e il picaresco, ma soprattutto un ragazzo dalla forte moralità “iperamericana”, che di assumere droghe non ha alcuna intenzione e che lo convincerà a smettere.
Dunque, tutto finisce bene: il ragazzo trova la sua strada, quella della scrittura, naturalmente, e persino quella dell’amore (complice l’editor, allegramente bisessuale), ma soprattutto il professore protagonista smette i panni del postsessantottino hippie e radical per trasformarsi in un buon marito (va a convivere, naturalmente, con la sua preside, riamato e soprattutto, ora, stimato) e finalmente riprende in mano il suo romanzo incompiuto che, in men che non si dica, conclude. Naturalmente, canne, cartine, marijuana e hashish sono tutti rigorosamente finiti non in tasca, ma al macero. Morale, a dir poco scontatissima: “farsi le canne” fa male, blocca nella testa e a letto, rovina luminose carriere e soprattutto porta con sé una dissennata forma di vita ricca solo di stranezze, oltrechè di stravizi, pseudoinfantile e velleitaria, esistenza “bruciata” da cui solo la santa innocenza di un ragazzo perbene, l’amore di una donna serena e caparbia e soprattutto la mitica “way of life” e i suoi comandamenti possono salvarti. Ne scaturisce un ritratto estroso e snob d’una insolita America letargica e hippie, sventata e compiaciuta che sembra mimare, con toni anacronistici, gli anni Settanta. Non è un caso che, nel film, Bob Dylan vi interpreti il suo nuovo brano, intitolato (per l’appunto) ‘Things have changed’ (si tratta della sua prima incisione dai tempi dell’album “Time out of mind” del 1997) e che nella colonna sonora risuonino anche “Old man” di Neil Young, “Waiting for the miracle” di Leonard Cohen, “Philosopher stone” di Van Morrison e “Watching the wheels” di John Lennon (oltre ad altre canzoni di Dylan).
Il suo non piccolo demerito, tuttavia, rimane quello citato all’inizio: chi si droga, anche se leggerissimamente, è perduto. Non bastano che due ore di cinema in sala, per provarlo.