La decisione delle Sezioni Unite sulla cosiddetta cannabis light (Cass. Pen. 2019/30475) sfugge in parte al suo compito nomofilattico, ossia a quel dovere di fare chiarezza nelle idee del diritto e nelle cose del mondo. Le severe certezze che emergono dalle motivazioni, depositate lo scorso 10 luglio, sono accompagnate da nodi problematici che spetterà al giudice (o al legislatore) sciogliere.
La legge 242/2016 ha previsto che le coltivazioni di alcune varietà di canapa, derivanti da sementi con principio psicoattivo (THC) inferiore allo 0,2% e destinate a finalità produttive tassative, “non rientrano nell’ambito di applicazione del testo unico in materia di disciplina degli stupefacenti” e che tali colture sono legali se si accerta un tasso di THC compreso tra 0,2% e lo 0,6%. Nulla è detto sulla commercializzazione dei derivati (infiorescenze e resine, la cd. cannabis light) di quelle “piante lecite” e, di conseguenza, è nato il problema della legalità della loro vendita nei cannabis shop.
Sulla questione la magistratura si è divisa. Un orientamento, autorevolmente patrocinato dalla sesta sezione penale della Cassazione, ha ritenuto che, in assenza di divieti espressi, dalla liceità della coltivazione di piante con tasso di THC inferiore a 0,6% possa farsi scaturire, come corollario logico-giuridico, la liceità della vendita (e dell’uso) dei derivati: legali e non stupefacenti le piante, legali e non stupefacenti tutti i derivati.
La sentenza delle Sezioni Unite, viceversa, ha scelto di conformarsi all’orientamento restrittivo e ha precisato che la legge 242 rende lecita soltanto la coltivazione delle piante con THC inferiore a 0,6% indirizzata a usi agroindustriali tassativamente elencati. La commercializzazione dei derivati della cannabis – che per il testo unico rimane pianta stupefacente indipendentemente dalla varietà e dal tasso di THC – integra gli estremi dello spaccio, salvo che tali derivati “siano, in concreto, privi di ogni efficacia drogante o psicotropa, secondo il principio di offensività”.
Non vi è dubbio che la sentenza metta a nudo le ipocrisie di una legge che, nel promuovere la filiera agroindustriale della canapa con contenuti di THC irrilevanti, ha colpevolmente omesso di disciplinare le conseguenze della vendita dei derivati. Tuttavia, nelle maglie di un ragionamento giuridico rigoroso, si percepisce anche una certa coloritura ideologica. La scelta di ritenere criminalizzata la vendita dei derivati con tasso di THC inferiore allo 0,6%, salvo che siano privi di “concreta efficacia drogante”, non permette di uscire dalle secche di un paradosso che dovrà essere sciolto di volta in volta al banco del giudice: vietato sequestrare le piante lecite, ma possibile sequestrare i derivati e perquisire e arrestare chi li vende. I recenti sequestri di Parma stanno lì a dimostrare che occorrerà attendere un processo per capire cosa è lecito e cosa no. Tutto dipende da come la magistratura interpreterà il concetto di offensività, che comunque non pare possa risolversi nella totale assenza di THC (in tale evenienza, infatti, non di reato inoffensivo si dovrebbe parlare, ma di non-reato).
Sfuma, dunque, la possibilità di fare ordine nella materia e di raggiungere, come aveva scritto la sesta sezione, quel ragionevole equilibrio – la fissazione del limite di 0,6% di THC per la cannabis light, supportato peraltro da evidenze scientifiche ormai inoppugnabili sulla assenza di effetti psicotropi – fra esigenze precauzionali relative alla tutela della salute e dell’ordine pubblico e le conseguenze della commercializzazione dei prodotti delle coltivazioni lecite. Sarà il giudice, di volta in volta, a stabilire cosa possa essere lecitamente venduto in quei posti che, comunque la si pensi, avevano sottratto alla criminalità organizzata e allo spaccio di strada una fetta di mercato.