Tempo di lettura: 4 minuti

Il primo caso di co-decisione tra Parlamento europeo e Commissione si è realizzato su un atto di rilevanti conseguenze per la vita di un gran numero di persone socialmente deboli, marginali, oltre che di grave valore culturale: la nuova direttiva sulle espulsioni degli stranieri irregolarmente presenti nel territorio europeo e sulla loro lunga privazione della libertà.
L’Europa riconferma con questa direttiva una linea già da tempo adottata e ribadisce in modo inequivocabile la propria vocazione a fortilizio in continua ricerca di maggiori difese dal presunto assedio di coloro che, spinti dalla povertà, di cui essa è storicamente corresponsabile, cercano una vita migliore abbandonando luoghi, cose e affetti per tentare di raggiungere il suo territorio.
È un’Europa inospitale e timorosa che vive la contraddizione tra la ricerca di manodopera sottopagata a cui affidare lavori gravosi e scarsamente accettati dai propri cittadini e il pervicace rifiuto di riconoscere che questi suoi nuovi abitanti sono soggetti portatori di diritti. Un’Europa che chiede sicurezza e non comprende che la più efficace misura per garantirla è favorire accessi ordinati e legali e vite familiari dignitose e unite; al contrario affida al respingimento, alle difficoltà poste a una vita normale, l’esito delle proprie paure: un’ansia in cui la rappresentazione simbolica della durezza conta più della ricerca delle effettiva sicurezza.
Questa è, da anni, l’Europa dell’Unione, quella costruita prima come accordo economico, commerciale, monetario e soltanto poi come accordo politico fondato sul riconoscimento di una carta di valori da tutelare: del resto, alla rapidità del processo di integrazione economica si contrappone ancora la lentezza dell’accordo politico e la Carta approvata a Nizza nel 2000, in cui si enunciano i diritti tutelati nell’Unione, stenta ancora a essere assunta come effettivo trattato e non mera enunciazione di buone volontà.
Ai Paesi dell’Unione viene richiesto di tutelarne efficacemente i confini e contrastare presenze irregolari: da qui le pratiche messe in atto in questi anni da alcuni di essi, che sono andate ben al di là di quanto, già grave, accade nel nostro paese, circa la detenzione amministrativa di persone irregolari. Solo due anni fa, per esempio, si è posto un limite ad alcuni paesi che prevedevano una detenzione di durata indefinita e gran parte di essi hanno conseguentemente posto un termine indiscriminatamente e automaticamente alto: diciotto mesi o anche più. Proprio a limitare questa tendenza espansiva e imporre sia livelli di vivibilità nei centri di detenzione sia un controllo indipendente su di essi, era originariamente rivolta l’idea della direttiva. L’esito della lunga discussione e il mutato quadro politico in molti paesi europei hanno finito col capovolgere quest’ottica e quanto approvato viene oggi presentato da molti governi, incluso quello italiano, come apertura alla possibilità di estendere i limiti della detenzione verso i massimi previsti, realizzando una sorta di parallelo circuito carcerario, peraltro non fornito di quegli strumenti di garanzia che connotano i sistemi penitenziari.
Il testo adottato del resto legittima tale interpretazione per almeno tre o quattro aspetti: l’estensione dei tempi di detenzione, la non indicazione di standard da rispettare, l’applicazione anche ai minori, il divieto di reingresso che non contempla la protezione di persone che possano trovarsi in necessità futura di asilo, il rinvio verso paesi terzi.
Sono punti cruciali sulla cui attuazione si gioca il suo effetto sulle politiche nazionali. L’ordine del giorno approvato contestualmente alla sua adozione, infatti, impegna i governi nazionali a non interpretare la direttiva come possibilità di introdurre norme che peggiorino la situazione vigente nei loro rispettivi paesi. Una “dichiarazione d’intenti” che sarà però significativa solo se le realtà socialmente e politicamente più accorte ne imporranno l’attuazione ai propri governi.
Il problema vero che emerge, infatti, da questa come da altre direttive è che esse possono essere viste con due sguardi diversi: come limite sopranazionale imposto alle decisioni locali oppure come legittimazione esterna di queste ultime. L’assenza di una capacità politica e culturale di agire a livello nazionale su problemi complessi, costruendo consenso sociale e imponendo scelte al governo, ha spesso indotto le forze democratiche e progressiste in Italia e altrove a sperare di trovare una sponda nelle “imposizioni” europee, quale freno a politiche nazionali altrimenti alla deriva sulla spinta di facile consenso popolare. Si è sperato nell’Europa come luogo dove porre un limite a richieste interne iper-securitarie e irrispettose dei diritti dei settori più deboli. In alcuni casi questo schema ancora funziona: è l’Europa a ricordarci che la minoranza Rom va accettata e protetta e a protestare sia per i provvedimenti che si stanno adottando, sia per i comportamenti che si sono messi in atto. Per il problema dei migranti invece lo schema non funziona: al contrario, è il governo a farsi scudo delle decisioni europee per dare copertura e legittimazione alle proprie scelte; sono i settori più chiusi e retrivi  a invocare ora l’Europa, quale benestare alla proprie richieste di maggiore reclusione e di rifiuto.
Non è allora possibile per la sinistra sottrarsi alla propria responsabilità politica e scaricare la responsabilità sull’Europa. Le direttive europee sono sempre mediatorie, spesso ambigue, ancor più spesso aperte a diverse possibili interpretazioni; è la realtà del nostro agire politico che non deve consentire la loro applicazione in negativo. Estendere a diciotto mesi la detenzione nei centri di permanenza italiani è una decisione politica la cui responsabilità è tutta nazionale, di chi l’assume e anche di chi non la contrasta. Del resto fino a ieri l’Europa non aveva posto alcun limite, eppure in Italia la permanenza non poteva eccedere i trenta giorni, prima, e i sessanta, dopo la Bossi-Fini. Una durata maggiore non era proibita da alcuna direttiva, eppure era non scelta sulla base di ragioni politiche, sociali, ordinamentali ed etiche. Il fatto che ora l’Europa ponga un limite massimo – soprattutto, come si è detto, per limitarne gli abusi in alcuni stati – non implica affatto che tale limite debba essere la nuova misura: se la si sceglie è per opposte ragioni politiche, sociali, ordinamentali ed etiche e soprattutto per il silenzio di un’effettiva opposizione.
C’è del resto anche un’altra Europa a cui guardare: quella della Convenzione per i diritti umani che pone limiti invalicabili alle scelte politiche nazionali: il divieto tassativo di condizioni di privazione della libertà contrarie al senso di umanità, l’obbligo di supervisione non formale da parte dell’autorità giudiziaria, il divieto di rinviare una persona verso un paese ove questa sia a rischio di persecuzione o tortura. Punti fermi da cui è possibile ripartire.