“Gli Stati dovrebbero armonizzare il rispetto dei propri obblighi ai sensi del regime internazionale di controllo delle droghe con i loro obblighi di rispettare, proteggere e adempiere a tutto il Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali e in particolare il diritto di partecipare al progresso scientifico e ai suoi benefici, attraverso una revisione permanente delle loro politiche in relazione alle sostanze controllate. La proibizione di ricerca su tali sostanze, o di potervi avere accesso sono, in linea di principio, restrizioni al diritto di beneficiare dello sviluppo scientifico e delle sue applicazioni mentre dovrebbero soddisfare i requisiti dell’articolo 4 del Patto”.
Chi scrive è il Comitato dell’Onu sui diritti economici, sociali e culturali che il 2 gennaio scorso ha pubblicato la bozza di un “commento generale sulla scienza” – un documento che chiarisce le implicazioni dell’articolo 15 di uno dei due Patti internazionali sui diritti umani che, secondo l’articolo 2 della Costituzione, son da considerarsi al pari della nostra Carta.
Questo commento generale, atteso da oltre un anno e che in primavera dovrebbe essere adottato definitivamente dall’Ufficio delle Nazioni Unite di Ginevra, ha anche un’altra parte relativa alla ricerca sulle sostanze sotto il controllo internazionale. “La ricerca scientifica è impedita per alcune sostanze poiché queste rientrano nelle Convenzioni internazionali sul controllo delle droghe e sono classificate dannose per la salute e senza valore scientifico o medico. Tuttavia ci sono prove che sostengono che ci sono usi medici per molte di queste sostanze o che queste non sono poi così dannose come si pensava quando furono sottoposte a questo regime. Questo è il caso dei derivati da oppio (per la cura del dolore e i programmi di mantenimento nella dipendenza da oppiacei), della cannabis (per l’epilessia resistente ad altre terapie) e dell’MDMA (usata in psicoterapia per i disturbi da stress post-traumatico) nella misura in cui esistono evidenze scientifiche disponibili.”
Il “commento” ricorda anche come l’Oms abbia raccomandato di declassificare la cannabis dalla Tabella IV della Convenzione del ‘61 riconoscendone gli usi e i benefici medicinali. Una proposta avanzata grazie a crescenti evidenze scientifiche. Il documento del Comitato parla chiaramente di “diritto alla scienza”.
Basterebbero questi tre passaggi per avviare la definitiva demolizione delle certezze proibizioniste in materia di stupefacenti – e non solo per usi medico-scientifici.
Infatti, altrove il “commento generale” ricorda che le leggi e le politiche – nazionali e internazionali – devono tener conto delle più recenti scoperte perché esiste il “diritto a godere dei benefici della scienza”. Se un numero crescente di ricerche dovesse dimostrare la non pericolosità di un uso consapevole di piante e derivati o prodotti di sintesi chimiche, come dovrebbe comportarsi il legislatore? Se la scienza ci consegna evidenze consolidate circa la non pericolosità di un consumo di piccole dosi, o i rischi connessi alla non conoscibilità dei principi attivi delle sostanze consumate, non tenere in considerazione questi dati frutto di lavori rivisti da scienziati di tutto il mondo è una violazione dei diritti umani e, in ultima istanza, dell’articolo 2 della nostra Costituzione.
Il proibizionismo viola dunque il diritto alla scienza in quanto limita immotivatamente la ricerca, scoraggia la condivisione dei saperi e non consente di godere dei benefici delle scoperte recenti.
Il 2020 segna un punto di non ritorno nella valutazione dell’impatto di leggi e politiche pubbliche sulla base delle evidenze scientifiche: politici, giuristi e militanti dei diritti umani ne tengano conto.