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«Errare humanum est, perseverare autem diabolicum». Non è dato sapere se il presidente venezuelano Chávez abbia mai letto Seneca, ma di certo non è l’unico a sentire puzza di zolfo. L’ultima denuncia del fallimento della guerra globale al terrore lanciata dall’amministrazione Bush proviene dal Senlis Council, autorevole think tank internazionale da sempre critico nei confronti della war on terror americana.

Il rapporto Chronic Failures in the War on Terror: from Afghanistan to Somalia analizza il fallimento dell’intervento Usa nei due Paesi, evidenziando come i numerosi fattori di insuccesso in Afghanistan – primo fra tutti, l’allargamento ed il consolidamento del fronte integralista islamico seguito alle azioni militari – abbiano trovato puntuale realizzazione anche nel Corno d’Africa.
Afghanistan e Somalia, società ultraframmentate e dilaniate da decenni di conflitti interni, condividono la totale implosione delle rispettive istituzioni statali. Se il governo Karzai, instauratosi dopo circa venti anni di guerra civile grazie alla sponsorizzazione delle forze occidentali, non ha saputo imporre la propria autorità a livello locale – stretto tra la nuova imponente insorgenza talebana e la resistenza dei signori della guerra – la Somalia è uno Stato esclusivamente di nome, privo di governo dalla caduta del regime di Siad Barre (1991) e in balia del potere dei clan tradizionali.
In tale contesto, l’avvio delle operazioni militari targate Usa ha fornito un micidiale strumento al servizio della sofisticata propaganda jihadista: la retorica della mobilitazione contro l’invasione dell’esercito cristiano, collante capace di risvegliare i «fratelli in sonno», più forte di qualunque divisione etnica, tribale e sociale.

Anche per questo motivo la conquista di Mogadiscio da parte dell’Unione delle corti islamiche, nel giugno del 2006, venne salutata da molti come l’anticamera della «talebanizzazione» della Somalia, e della sua trasformazione in un «piccolo Iraq» – come ha scritto Jean-Philippe Rémy su Le Monde – bacino di rifornimento per l’islamismo integralista.

La durissima repressione dell’esercito etiope, sostenuto dalle forze statunitensi, ha rapidamente travolto il regime islamico, spingendo però una parte non irrilevante della popolazione verso le posizioni di antagonismo più radicale contro il governo di transizione somalo.

È in questo momento che si colloca la diffusione del jihadismo come pratica militante – fenomeno alieno alla società somala, tradizionalmente vicina alla corrente mistica sufista – grazie all’avvicinamento tra i gruppi ribelli, contrari al governo di transizione supportato dal nemico di sempre (l’Etiopia), e i gruppi armati islamici, la cui attività in Somalia era stata fino ad allora estremamente limitata.

Gli studiosi del Senlis Council sottolineano come tale dinamica riproduca quella già verificatasi in Afghanistan, dove la progressiva fusione tra gruppi di Al Qaeda e talebani, seguita all’operazione Enduring Freedom dell’ottobre del 2001, ha notevolmente modificato le strategie militari degli integralisti, anche attraverso l’introduzione di tecniche di guerra (si pensi agli attacchi kamikaze) prima sconosciute nel Paese.

I gravi limiti denunciati dalla strategia mono-dimensionale finora attuata dall’amministrazione Bush hanno conferito nuovo smalto alla dottrina dei soft powers, quell’insieme di risorse – diplomatiche, relazionali, culturali e sociali – integrative e/o alternative all’uso delle armi.

La Commissione promossa alla fine dello scorso anno dal prestigioso Center for Strategic and International Studies (Csis) di Washington, con l’obiettivo di tracciare un bilancio della politica estera Usa, ha concluso per la necessità di superare l’approccio esclusivamente militare finora perseguito, facendo ricorso a strumenti diplomatici e di cooperazione erroneamente ignorati nell’attuazione della guerra globale al terrore.

Si pensi al caso paradigmatico dei rapporti Usa con il regime talebano, dapprima contattato e blandito dalla petrolifera texana Unocal – allorché governatore del Texas era G. W. Bush – all’epoca delle trattative per la costruzione di un’imponente pipeline che avrebbe dovuto attraversare la regione; successivamente additato quale principale alleato di Osama bin Laden, oltre che bollato come regime oscurantista e antidemocratico.

Che anche nel Corno d’Africa una soluzione, non solo militare, abbia speranze di successo lo insegna inoltre l’esperienza della regione settentrionale del Somaliland, riuscita a raggiungere – nel quasi assoluto silenzio mediatico – standard democratici ineguagliati nella regione. L’autoproclamata repubblica, ancora in attesa di una piena legittimazione internazionale, ha infatti saputo sottrarsi alla spirale di violenza e disgregazione che ha travolto Mogadiscio, dando vita alla vera «African success story» dell’area.

Notevole stabilità istituzionale, multipartitismo, relativo benessere ne accompagnano la strada verso la piena sovranità sui propri territori, formalmente goduta per i soli cinque giorni (26 giugno-1° luglio 1960) che separarono l’indipendenza dalla Gran Bretagna dalla scelta – rivelatasi poco lungimirante – di confluire nella Somalia unendosi agli ex territori italiani. Un’inversione di rotta che dimostra anche all’amministrazione Bush, che tra l’altro ancora esita a riconoscere la nuova repubblica, che certamente sbagliare è possibile, ma perseverare…