Breonna Taylor era una infermiera. Aveva 26 anni e viveva a Louisville nel Kentucky. Nella notte del 13 marzo scorso è stata uccisa nella sua casa da otto proiettili durante una scellerata irruzione della polizia. Gli agenti avevano ottenuto un mandato di perquisizione “no knock”, ovvero senza l’obbligo di bussare ed indentificarsi, una pratica diffusa nei casi di droga ma il cui uso estensivo è già stato dichiarato incostituzionale dalla Corte Suprema USA. Sospettavano che la sua casa fosse utilizzata dall’ex fidanzato Jamarcus Glover, indiziato per spaccio, per ricevere pacchi sospetti e come deposito della droga. Per giustificare la richiesta di mandato la Polizia ha citato la testimonianza di un ispettore postale, il quale avrebbe smentito di aver parlato con i poliziotti e di aver notato pacchi sospetti. Sono entrati senza identificarsi, aprendo la porta con un ariete e spaventando Breonna ed il suo fidanzato Kenneth Walker. Quest’ultimo ha utilizzato la sua pistola, regolarmente posseduta, per difendersi da quelli che credeva essere agressori, sparando per primo. I poliziotti hanno risposto al fuoco, esplodendo una ventina di colpi, otto dei quali sul corpo di Breonna. Nessuna droga è stata trovata nella casa. Mentre Breonna moriva, secondo i legali della famiglia, il suo ex era già nelle mani della polizia, arrestato nel suo “covo” insieme a cocaina, crack e marijuana. Il fidanzato di Breonna, in un primo tempo è stato accusato di tentato omicidio. Le accuse sono poi state ritirate, via via che i contorni della faccenda si chiarivano e le testimonianze dei vicini confermavano la versione di Walker di cui è stata diffusa la telefonata immediata al 911.
Qualcuno potrebbe definire la morte di Breonna Taylor un “danno collaterale” della war on drugs. Ma non è così: come non lo è per George Floyd, con il poliziotto chino sul suo collo che lo scherniva ammonendo la folla intorno: “non drogatevi, ragazzi”. Così per Federico Aldrovandi, Riccardo Magherini, Stefano Cucchi o Aldo Bianzino. Tutti sono accomunati dalla “colpa” di possedere, spacciare o usare droghe, strumentalizzata dalle forze dell’ordine, chi prima chi dopo la morte, per disumanizzare e privare della dignità la vittima del sopruso.
Per Kassandra Frederique della Drug Policy Alliance (DPA) “la guerra alla droga non ha creato il razzismo istituzionale o disprezzo per la vita dei neri negli Stati Uniti. Tuttavia, nutre e rafforza le strutture razziste che quotidianamente spengono la vita nera.” Kassandra continua sottolinendo come in queste morti violente “il vero pericolo su cui dovremmo creare consapevolezza non sono le droghe, ma i modi in cui il colore della pelle, il genere percepito o lo stato socio-economico rendono queste persone un bersaglio per le molestie e, troppo spesso, la morte. Il coinvolgimento della droga, sia esso percepito o reale, ha fornito una comoda scusa per questi interventi violenti e troppo spesso fatali.”
E’ ormai chiaro dopo 60 anni di war on drugs: le leggi che permettono all’autorità di usare la clava della repressione su larga scala sono quelle sulle sostanze illecite. Da sempre sono utilizzate per criminalizzare pezzi di società, a volte i “giovani”, altre i migranti, altre i neri, marroni o gialli. Drogati e “venditori di morte” sono del resto bersagli perfetti e facili da trasformare in nemici senza diritti o dignità. Conosciamo bene la campagna di Aslinger sulla “marijuana” assassina portata dai messicani degli anni 30 (e a seguire il Marijuana Tax Act e le convenzioni internazionali), come di Nixon ricordiamo l’uso che fece della War on Drugs contro i movimenti studenteschi e pacifisti degli anni 60.
Per farsi un’idea di quello che davvero succede sulle strade americane è fondamentale leggere il rapporto “A Tale of Two Countries: Racially Targeted Arrests in the Era of Marijuana Reform” rilasciato dall’American Civil Liberties Union (ACLU) nell’aprile scorso di cui trovate i contenuti chiave tradotti su Fuoriluogo. Esso offre un’analisi in profondità, anche se limitata agli arresti per cannabis, di ciò che avviene contea per contea.
La situazione non è molto differente in Italia, e qui c’è il Libro Bianco sulle droghe e le altre ricerche intorno alle carceri ad aiutarci. I reati di droga sono quelli più facili da perseguire con successo (il rapporto denunciati condannati è 1 ogni 2, contro 1 ogni 10 per i reati contro il patrimonio e la persona). Il Testo Unico sugli stupefacenti è il vettore trainante delle politiche repressive e carcerarie. Se negli USA sono le “perquisizioni consensuali” a permettere la “pesca a strascico”, in Italia è l’articolo 103 del DPR 309/90 l’occasione per poter fare arresti facili. Il solo possesso di una minima quantità di sostanza giustifica spesso – stante l’obbligatorietà dell’azione penale – l’arresto ed il processo. Se sei un migrante il processo è assicurato, ma anche se sei autoctono con pochi grammi di sostanza subisci una segnalazione all’autorità prefettizia per le sanzioni amministrative. Queste ultime sono comminate al 40% dei segnalati (1.300.000 persone dal 1990 ad oggi). Il risultato è che le nostre carceri sono piene di detenuti accusati di piccolo spaccio e persone che usano sostanze. Senza di loro non vi sarebbe alcun sovraffollamento.
La causa della morte di troppe persone e della vita rovinata di molte altre è il razzismo strutturale e lo stigma nei confronti del “diverso”. Uno degli strumenti preferiti è la war on drugs: fermiamola finchè la libertà respira ancora.