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L’emergenza sanitaria imposta contro la pandemia del coronavirus ha posto tutti di fronte al proibizionismo: per due mesi ci è stata preclusa la nostra libertà di movimento. Trattandosi di una misura necessaria, e temporanea, a contenere la diffusione di un virus potente, nella stragrande maggioranza dei casi le persone hanno rispettato la proibizione. Era per il nostro bene e i risultati di certi comportamenti iniziano a dare i loro frutti. La durata della misura era correlata all’efficace contenimento delle infezioni in Italia. Anche i commentatori più severi, dopo qualche giorno, si sono dovuti ricredere circa l’intrusione nelle nostre libertà.
Anche se i numeri erano ballerini e non sempre aggiornati, le scelte del governo si sono appoggiate su dati raccolti dalle istituzioni competenti, condivisi con comitati di esperti e task force e passati al setaccio dalla stampa di ora in ora. Seppure comunicate in modo estemporaneo e scoordinato, le decisioni dell’esecutivo son state aggiornate sulla base di numeri e previsioni certificate.
Il XVII obiettivo fissato dalle Nazioni Unite per iniziare il Millennio in solidarietà è dedicato a

“Rafforzare le modalità di attuazione e rilanciare il partenariato globale per lo sviluppo sostenibile”. Tra le azioni necessarie per raggiungere tutto ciò viene data grande importanza alla qualità dei dati necessari ai governi per adottare politiche efficaci. Secondo l’ONU solo il 55% degli Stati Membri condivide informazioni raccolte con tempi e metodologie scientificamente accettabili. Tra questi c’è l’Italia.

Ma è sempre così? Siamo sicuri che il nostro Paese sia all’altezza del compito fissato dall’ONU quando si parla del modo con cui condivide i dati relativi al suo impegno a contribuire al “sistema internazionale del controllo delle sostanze stupefacenti”?

Se così fosse non avrebbe problemi a presentarli durante la Conferenza nazionale sulle Droghe prevista dal Testo Unico sulle Droghe e, probabilmente, questo Libro Bianco non sarebbe necessario. Oltre a questa mancata analisi, anche storica, dell’impatto delle misure “anti droga”, il cosiddetto “quarto potere” italico manca sistematicamente di esercitare la sua funzione di “cane da guardia” del potere.
Quando la cronaca ci offre “storie di droga” si continua a propagare la percezione di un fenomeno che, se letto attraverso i numeri, potrebbe esser raccontato in modo radicalmente diverso. Un fenomeno socialmente e culturalmente sempre più diffuso e rilevante e, sempre numeri alla mano, molto meno pericoloso di qualche anno fa. Un fenomeno sempre e solo raccontato come se fossimo negli anni Ottanta.
Da almeno 30 anni in Italia si insiste col perseguire politiche di “lotta alla droga” basate su norme che sono totalmente sconnesse dalla realtà dei fatti. Le istituzioni, e la stampa, sono perfettamente a conoscenza dei “numeri”. Ma le prime li producono burocraticamente e non col fine ultimo di “informare” chi dovrebbe analizzarne l’impatto, e la seconda pare intenta prevalentemente a lucrare su un superficiale sensazionalismo paternalista che ingigantisce fatti di cronaca quasi a distrarre l’opinione pubblica, e quella di chi governa, dal cuore del problema, generando isterici allarmismi. Quando si sollecitano commenti ci si sente dire che bisogna uscire dalla dicotomia “proibizionisti” versus “anti-proibizionisti”.

Il proibizionismo “made in Italy” ha avuto vicende alterne: da una “sacra inquisizione” siamo passati alla guerra alla droga all’amatriciana, ma né gli alti né i bassi son mai stati ritenuti abbastanza “gravi” o “incoraggianti” per suscitare una revisione dell’impianto generale della legge sulle droghe e le politiche che ne derivano. Pur modificata nel 1993 da un referendum, nel 2006 da un decreto legge del tutto incongruo e riaggiustata dalla Corte Costituzionale nel 2014, la legge sulla droga italiana resta nell’impianto una legge che ha 30 anni. Nel 2020 il mondo è un’altra cosa rispetto ad allora, indipendentemente da vere o false dicotomie.
Negli anni non sono mancati momenti di grande coinvolgimento popolare, come nel referendum del 1993, o di accrescimento di conoscenza grazie a un dialogo con le istituzioni, locali e centrali, che hanno portato a miglioramenti temporanei di alcune delle politiche socio-sanitarie. Nel 2016, grazie a un partecipatissimo intergruppo parlamentare per la cannabis legale, per la prima volta nella storia della Repubblica si è arrivati a un dibattito in aula su regolamentazione di produzione, consumo e commercio della cannabis. Sebbene nel novembre di quell’anno fosse stata deposita alla Camera una proposta di legge d’iniziativa popolare con oltre 67000 firme, la questione è caduta in balia delle dinamiche partitiche e delle elezioni sempre all’orizzonte.

Anche se non coi numeri del passato, l’inter-gruppo sulla cannabis è stato rilanciato nella XVIII Legislatura – sulla carta i numeri in aula sarebbero più incoraggianti che nel 2016. L’arrivo della pandemia ha sospeso le attività parlamentari ma senza una spinta da fuori del Palazzo sarà difficile vedere la legalizzazione della cannabis, o l’altrettanto necessaria revisione radicale del Testo Unico sulle droghe.
Quanto saremmo stati disposti a tollerare la proibizione di uscire di casa se questa non si fosse rivelata utile a contenere il virus? Quanti avrebbero sopportato una quarantena senza fine? Quanti ritengono che tenere le scuole chiuse mini il sistema educativo? Quanti sono dell’opinione che con le dovute precauzioni si debba poter andare a bere e mangiare o in vacanza con amici e parenti? Non sono domande retoriche ma dubbi che in questi mesi ci hanno accompagnato quotidianamente.

Occorre esser invasi da numeri e statistiche, come da 11 anni fa in modo indipendente questo Libro “bianco”, in modo che sulla base di analisi fattuali si aggiornino politiche che col passare del tempo sono diventate parte integrante del problema. Ammesso e non concesso che si sia di fronte a false dicotomie, un bagno di realtà oltre a essere un ritorno al “buon senso” è anche un obbligo internazionale, proprio come quello della proporzionalità delle pene che la Repubblica italiana ha in virtù della ratifica di tutti gli strumenti internazionali dei diritti umani. Anni di ricerca di dialogo e promozione di alleanze dentro e fuori i Palazzi non hanno portato a progressi significativi, dall’attivazione delle Corti nazionali occorrerà internazionalizzare anche il fronte giurisdizionale.