Isolamento, meno ore d’aria, compressione delle attività interne, visite pressoché inesistenti. Detenuti a cui viene negato reinserimento sociale: per loro la legge Gozzini (che il governo Berlusconi vuole cancellare) è un miraggio. Eppure rappresentano una cospicua parte della popolazione carceraria nazionale e sono in buona parte estranei a procedimenti mafiosi. Il 41 bis non li riguarda. E allora? Sono colpiti da altri regimi di carcere duro previsti nel sistema penitenziario italiano e inflazionati negli ultimi anni: Alta sicurezza (As), Elevato indice di vigilanza (Eiv) e Sorveglianza particolare (Sp). Dati alla mano sono quindicimila i detenuti (nel 2000 erano solo mille) sottoposti a questi trattamenti, stabiliti direttamente dal Dap (Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria), che variano nella durezza da carcere a carcere. Non esiste infatti una legge nazionale che “normalizzi” o quanto meno “regolamenti” queste restrizioni. Il potere è alla discrezionalità.
Regimi speciali
L’As, introdotta negli anni ‘90 dall’allora capo del Dap Nicolò Amato, è l’unica che specifica i reati che il detenuto deve aver commesso affinché sia giustificata: sequestro di persona, associazione a delinquere e traffico internazionale di droga, i principali. Non viene però applicato in maniera uniforme. In alcune carceri i detenuti sottoposti all’As sono del tutto esclusi dalla normale vita penitenziaria (scuola, lavoro, sport); in altri possono incontrare solo il cappellano. L’asprezza del trattamento varia a seconda del penitenziario. I benefici della legge Gozzini e gli “sconti” sul regime duro sono ammissibili a una sola condizione: la collaborazione con la giustizia. Un legame tra pentitismo e regime duro è così presente. E in alcuni casi è, seppur non esplicitamente, la via usata per indurre a parlare.
Sull’Eiv la discrezionalità del Dap aumenta. Non sono specificati i delitti per i quali è previsto: molti terroristi della prima generazione vi sono sottoposti. Questi due regimi sono comunque presenti in altre parti di Europa. Quello che cambia è la chiarezza delle norme nell’assegnazione a tali circuiti e l’effettività del potere di ricorso contro la decisione. “Non è accettabile la durata indefinita dei provvedimenti, il loro rinnovo automatico, i contenuti di tipo vessatorio tendenti a introdurre un’ulteriore pena rispetto a quella comminata e le condizioni di isolamento assoluto” dichiara Mauro Palma, presidente del Comitato europeo per la prevenzione della tortura, che poi va oltre: “Rientrano nella definizione di trattamenti inumani o degradanti”.
La Sorveglianza particolare, la più inflazionata negli ultimi anni, è invece utilizzata contro i detenuti “pericolosi dal punto di vista penitenziario”. Persone sottoposte a questo regime per periodi limitati di tempo in considerazione di una valutazione di pericolosità intra-muraria decisa dall’amministrazione penitenziaria e confermata dalla magistratura di sorveglianza. E, come negli altri due regimi, si perde la possibilità di accedere a corsi di formazione professionale e a iniziative di carattere educativo e culturale. Oltre a essere soggetti a quell’isolamento che non permette praticamente di avere momenti di socialità con gli altri detenuti.
Il carcere punitivo
Il Comitato per la prevenzione della tortura segnala alcuni casi di totale inaccettabilità in molti carceri italiani. “Non vengono rispettati i diritti elementari”, denuncia Franco Uda, responsabile nazionale giustizia dell’Arci e vice-presidente della Conferenza nazionale volontariato giustizia, che analizza la nuova composizione sociale delle galere: “Non sono più luoghi di rieducazione come prevede l’articolo 27 della Costituzione – dice – ma contenitori dell’esclusione sociale”.
Soprattutto dopo la legge Fini-Giovanardi sulle droghe, la Bossi-Fini sull’immigrazione e la Cirelli sulla recidiva. Fatte dal precedente governo di centrodestra e non abrogate dall’ultimo di centrosinistra. Ora l’obiettivo di Uda, e non solo, è respingere le nuove misure del governo sulla questione sicurezza: “Berlusconi alimenta l’industria della paura – spiega – risvegliando la pancia del paese”. Così come la tanto invocata “certezza della pena” si traduce in un carcere, come luogo esclusivamente di punizione. Si perde così di vista l’obiettivo originario del reinserimento.
“Stiamo assistendo a una grave regressione istituzionale e culturale nei sistemi penitenziari”, dichiara sconfortato Giorgio Bertazzini, garante dei detenuti della provincia di Milano, che fa notare l’anomalia italiana: “Nei regimi di sicurezza ogni istituto è una costellazione a sé. Ci sono differenziazioni di fatto della stessa misura restrittiva”. Un gap legislativo che questo esecutivo non sembra voler colmare.
Tutto il potere al Dap
Sulle responsabilità di questa situazione le associazioni che lavorano nelle carceri fanno un appello affinché le limitazioni alle libertà fondamentali non siano potere discrezionale del Dap: “La questione va normata”. “Ai vertici del dipartimento prima viene posto un magistrato in nome della sua intrinseca indipendenza – spiega Palma – ma poi viene rimosso e sostituito al mutare del quadro politico. Il Dap non è più una controparte affidabile”.
E se le associazioni chiedono maggiore attenzione alle norme di reinserimento della popolazione carceraria, magari estendendole (quasi) a tutti, i proclami del ministro Angelino Alfano e di Filippo Berselli (Presidente della Commissione Giustizia del Senato) fanno presagire un peggioramento della situazione. Toccare la Gozzini, in un sistema già in crisi, sarebbe la pietra tombale.