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E’ l’ndrangheta la preoccupazione principale di Richard Bendekovic, responsabile dell’ufficio milanese della Drug enforcement administration (Dea), l’agenzia federale antidroga statunitense. In un colloquio con Apcom, Bendekovich evidenzia come il ruolo giocato della mafia calabrese nel traffico internazionale di stupefacenti e nel riciclaggio del gigantesco volume di denaro che ne deriva che coinvolge sempre piú Paesi europei sia, per la sua forza criminogena e la sua capacità di globalizzarsi, una potenziale minaccia anche per gli Stati Uniti, soprattutto per gli stretti legami stabilmente intessuti con i narcos colombiani che riversano enormi quantità di droga attraverso il confine messicano. “Per quanto riguarda l’Italia l’elemento di maggiore preoccupazione è costituito certamente dall’attività dell’ndrangheta – spiega ad Apcom Bendekovic, la cui competenza si estende a Albania, Serbia, Kossovo e Montenegro – e in particolare i rapporti strettissimi che intercorrono tra le cosche calabresi e i narcos colombiani nel traffico di stupefacenti”. “L’ndrangheta rappresenta un pericolo per gli Usa perch‚ è un elemento sempre piú importante nell’arricchimento e quindi nel rafforzamento dei narcos colombiani” continua il 42enne “resident agent in charge”, confermando l’allarme lanciato piú volte dai magistrati e investigatori italiani in merito alla presenza di esponenti delle diverse ‘ndrine nei Paesi produttori di cocaina e il ruolo primario da loro rivestito anche grazie alla fama di partner affidabile. Per capire quanto radicata sia la mafia calabrese in Colombia basti pensare che da anni questa organizzazione ha alcuni suoi uomini che vivono stabilmente nel Paese sudamericano, in rapporto diretto con figure del calibro dell’italo-colombiano Salvatore Mancuso, il leader dei paramilitari dell’Auc ritenuto uno dei massimi narcotrafficanti di coca colombiani, arrestato ed estradato il 13 maggio scorso negli Usa, dove è stato preso in carico proprio dagli agenti della Dea. A impensierire Bendekovic, da un anno alla guida dell’ufficio Dea (che si trova all’interno del Consolato degli Stati Uniti di Milano), dove è giunto dopo 17 anni di servizio nell’agenzia, è in particolare “il controllo esercitato dagli ‘ndranghetisti e dai colombiani delle fiorenti rotte dell’Africa occidentale, nei cui porti transita la cocaina spedita a tonnellate dalla Colombia, ma anche dalla Bolivia, Venezuela, Ecuador, Perú e Brasile, per poi giungere in Europa”. Un traffico confermato per l’ennesima volta, per esempio, dall’operazione “Stupor Mundi” condotta nel maggio dello scorso anno dalle Fiamme Gialle coordinate nel dalla Dda di Reggio Calabria: 40 arresti contro affiliati dei clan della Locride che acquistavano in Colombia partite di cocaina pura fino a tremila chili alla volta. Lo stupefacente in quel caso prima di giungere in Piemonte e Lombardia, faceva tappa in Olanda. Nel 2008 ci sono stati diversi sequestri di stupefacenti in West Africa: nell’aprile scorso in Guinea Bissau sono stati sequestrati 635 chili di cocaina, e quasi 1400 in Mauritania nei mesi successivi, tra maggio e agosto. La droga arriva dall’America Latina attraverso piccoli aerei ma soprattutto stipata in navi container verso i porti, oltre che di Guinea, Mauritania e isole vicine, anche di Dakar (Senegal), Abidjan (Costa d’Avorio), Lom‚ (Togo), Cotonou (Benin), Tema e Takoradi (Ghana) e Port Harcourt (Nigeria). Qui la cocaina viene stoccata e caricata su pescherecci o piccole navi dirette in Spagna e Portogallo, dove viene immagazzinata e poi spedita in Italia e negli altri Paesi europei a bordo di altre navi merci o a bordo di tir. Il pagamento avviene quasi sempre in contanti e talvolta puó prevedere uno scambio di ostaggi a reciproca garanzia del rispetto degli impegni presi.

Nel suo dossier “‘ndrangheta Holding 2008”, l’Eurispes classifica il traffico di stupefacenti come il settore criminale piú remunerativo delle cosche calabresi quantificandolo in oltre 27 miliardi di euro l’anno, su un giro d’affari complessivo di 43,7. Anche nell’ultima relazione della Commissione parlamentare antimafia, il presidente Francesco Forgione spiega che di fatto l’ndrangheta ha due sedi principali, una naturalmente in Calabria, l’altra nei comuni del Centro-Nord italiano oppure nei principali Paesi stranieri che sono cruciali per i traffici internazionali di stupefacenti o per il riciclaggio di valuta. E il processo di internazionalizzazione della mafia calabrese ha portato a una penetrazione costante, e in certi casi in un vero e proprio radicamento, in Paesi come Germania, Spagna, Portogallo, Francia, Svizzera, Austria, oltre che nei Paesi dell’ex Urss e dell’ex Jugoslavia. Oltre naturalmente al Nord America, dove il 7 agosto scorso il Ros dei carabinieri ha arrestato in Canada il 42enne boss Giuseppe Coluccio, che da Toronto gestiva per le cosche di Siderno e Gioiosa Ionica un vastissimo traffico di cocaina ed eroina di provenienza colombiana dall’America all’Europa in collaborazione con le famiglie agrigentine dei Caruana-Cuntrera, noti tra l’altro per la loro capacità di riciclare il denaro sporco per conto di diversi cartelli della droga.

L’interesse degli Stati Uniti per la mafia calabrese è testimoniato anche dal fatto che il 30 maggio scorso la Casa Bianca ha inserito (insieme ai signori della droga afghani, venezuelani, messicani, ma anche al Pkk curdo) “‘Ndrangheta Organization” nel cosiddetto “Kingpin Act”, un elenco di organizzazioni malvitose straniere implicate nel traffico mondiale di droga, alle quali gli Stati Uniti si impegnano a negare accesso al sistema finanziario e a tutte le transazioni di mercato che coinvolgano propri cittadini o aziende”. Nel comunicato che lo annuncia, la Casa Bianca ringrazia “il supporto e la cooperazione offerti in particolare quest’anno dal governo italiano” nel segnalare il pericolo rappresentato dalla mafia calabrese. La presenza di ‘ndranghetisti negli States non è paragonabile a quella storica di Cosa Nostra, ma non è nemmeno del tutto da sottovalutare e oggi si concentra in particolare nello Stato della Florida e in quello di New York. A partire dal cosiddetto “Siderno Group”, impiantatosi negli Usa fin dagli anni Cinquanta (e con un giro d’affari di circa 50 milioni di dollari frutto soprattutto del traffico di eroina e armi), passando per i Di Giovine attivi nei primi anni Ottanta e dediti in particolare al traffico di cocaina, le inchieste contro le cosche calabro-statunitensi hanno portato agli arresti anche di personaggi di spicco di famiglie importanti come i Mammoliti o i Macrí, svelando oltre ai traffici di stupefacenti anche consistenti operazioni di riciclaggio.

L’attività fuori dagli Usa degli agenti Dea sparsi nelle 86 sedi di 62 Paesi è principalmente di monitoraggio, acquisizione e scambio di informazioni in un rapporto di costante cooperazione con le polizie locali al fine di valutare e contrastare possibili minacce dirette contro gli Stati Uniti. E l’Italia non fa eccezione. “Abbiamo quattro agenti divisi tra il Consolato di Milano e l’Ambasciata di Roma – continua Bendekovic – e il nostro compito non è quello di investigare ma quello di costruire relazioni proficue con le forze di polizia italiane, canali di comunicazione per l’interscambio di analisi e informazioni operative utili a entrambi i Paesi nell’ottica di una comune strategia di contrasto alla diffusione e al traffico di stupefacenti”. Un ruolo dunque piú “diplomatico” che “operativo”, di acquisizione costante e profonda di informazioni che in qualsiasi momento possono riverlarsi un asso nella manica nella politica Usa, e naturalmente non solo sul versante investigativo e di contrasto al crimine. Un ruolo importante, radicato nella complessa storia dei rapporti Stati Uniti-Europa Occidentale a partire dalla Seconda Guerra Mondiale.

A spiegare la presenza tuttosommato modesta di agenti Dea nel nostro Paese, c’è il fatto che, ‘ndrangheta a parte, il ruolo giocato nel narcotraffico dall’Italia e dall’Europa non è considerato una “minaccia diretta” per gli Stati Uniti. Se infatti la cocaina entra negli Usa dalla frontiera messicana, per quanto riguarda l’eroina si è certamente chiusa la stagione d’oro delle raffinerie siciliane degli anni Ottanta, dalle quali Cosa Nostra produceva tonnellate di micidiale polvere bianca la maggior parte delle quali era diretta proprio negli Stati Uniti.

“Oggi l’eroina che viene consumata principalmente in città come New York e Philadelphia è prodotta e raffinata in Colombia e Messico” afferma Bendekovic, che evidenzia anche che per quanto riguarda le metanfetamine e altre sostanze similari (ecstasy, mda, ecc..) il traffico verso gli Usa “proviene quasi esclusivamente dal Canada e non piú dall’Olanda”, Paese che continua a produrre “droga chimica” per il solo mercato europeo.
Cosí come fa l’Afghanistan con l’oppio e l’eroina. Quattro sono anche gli agenti Dea che operano in Spagna, Paese in cui la massiccia presenza di mafiosi italiani (spesso latitanti ricercatissimi) siciliani, campani e calabresi è pari solo a quella degli attivissimi narcotrafficanti sudamericani.

Va infine ricordato che dopo 11 settembre 2001 nelle priorità indicate dall’Amministrazione statunitense per la sicurezza nazionale, il contrasto alla droga è sceso di molte posizioni, scavalcato dal terrorismo, ma anche dalla corruzione pubblica. A queste indicazioni devono attenersi anche le agenzie federali come la Dea e l’Fbi, oltre naturalmente i servizi segreti, che in Italia incentrano la loro attenzione in particolare sul radicalismo islamico. Tant’è che oggi i principali interlocutori dei “federali” statunitensi sono soprattutto le strutture antiterrorismo delle diverse forze di polizia italiane.

La Dea nasce nasce ufficialmente il 1 luglio del 1973, dalla fusione tra il Bureau of narcotics and dangerous drugs (Bndd) e l’Office of drug abuse law enforcement (Odale), in un progetto di riorganizzazione voluto dall’allora presidente Richard Nixon per contrastare nel modo piú efficace la diffusione degli stupefacenti. Oggi l’agenzia impiega circa 11mila persone (di cui 5mila sono agenti speciali) e conta su circa 240 uffici negli Usa a cui si aggiungono le 86 sedi sparse in altri 62 Paesi. Il budget a disposizione dell’Agenzia si aggira intorno ai 2,5 miliardi di dollari. Il quartier generale è ad Arlington, in Virginia, mentre la sua accademia si trova nella base del Corpo dei Marine di Quantico, sempre in Virgina, insieme a quella dell’Fbi, con la quale divide la giurisdizione sulla lotta antidroga. Il capo della Dea risponde al ministro della Giustizia e viene nominato su proposta diretta del Presidente Usa e confermato dal Senato. Dal 2007 il responsabile dell’Agenzia è una donna, la “special agent” Michele Leonhart.