Il 2020 ha fatto anche cose buone, almeno per quanto riguarda la cannabis. Dai primi di novembre è stato un susseguirsi di decisioni politiche, giurisdizionali e istituzionali che hanno posto la pianta proibita al centro di provvedimenti di normalizzazione che lasciano ben sperare per il futuro.
L’ultimo il 4 dicembre, quando la Camera dei Rappresentanti di Washington ha approvato – 228 favorevoli e 164 contrari – il MORE Act che depenalizza la cannabis a livello federale.
Il provvedimento ne prevede la tassazione e abbatte le proibizioni che oggi complicano la vita ai 15 Stati Usa che l’hanno legalizzata e all’imprenditoria del settore. Anche se il Senato a maggioranza repubblicana non farà altrettanto, si tratta di un voto storico – per la prima volta una riforma del genere arrivava al voto in plenaria nella patria della «War On Drugs».
SOLO UN MESE PRIMA l’elezione di Joe Biden è stata accompagnata da vittorie referendarie che hanno legalizzato per tutti i fini la produzione, il consumo e commercio di cannabis in New Jersey, Arizona, Montana e South Dakota, mentre il Mississippi è diventato il 35esimo che che ne consente l’uso terapeutico.
Il MORE act, che è stato proposto alla Camera da Jerry Nadler e al Senato dalla vice presidente eletta Kamala Harris, elimina la cannabis dall’elenco del Controlled Substances Act del 1971.
Il provvedimento permetterebbe di rivedere le condanne pregresse e impone una tassa federale sulla vendita dei prodotti legati alla cannabis al fine di risarcire comunità e individui colpiti dalla War On Drugs, incentivando la nuova imprenditoria legale.
Anche se questi ultimi obiettivi sono stati depotenziati durante il percorso parlamentare si tratta di un voto di valore simbolico enorme per tutto il movimento antiproibizionista mondiale. E in particolare per quello nordamericano che infatti ha accolto l’approvazione con grande soddisfazione, in particolare per le sue implicazioni sull’oppressione delle minoranze.
L’applicazione delle leggi proibizioniste sulla marijuana è responsabile di oltre mezzo milione di arresti negli Stati uniti ogni anno. Le persone afroamericane e di origine asiatica o latina sono colpite in modo sproporzionato: i non bianchi hanno quattro volte più probabilità di essere arrestati per possesso di marijuana rispetto ai bianchi nonostante tassi di consumo uguali.
PER MARITZA PEREZ della Drug Policy Alliance, «la criminalizzazione della marijuana è una pietra angolare della guerra razzista alla droga. Anche dopo un decennio di vittorie nelle riforme, l’anno scorso una persona è stata arrestata quasi ogni minuto per il semplice possesso di marijuana».
Secondo il più recente sondaggio dell’opinione pubblica, il 68% degli americani sostiene la legalizzazione della marijuana. L’amministrazione Biden, pur timida sul tema, dovrà tenerne conto.
IL 2 DICEMBRE la Commissione droghe delle Nazioni unite ha votato per riconoscere il potere terapeutico della cannabis.
Nel pomeriggio dello stesso giorno la Commissione europea, forte della sentenza della Corte del Lussemburgo del 19 novembre, ha chiarito che prodotti contenenti CBD frutto dall’intera pianta della cannabis, infiorescenze comprese, possono essere inseriti nella lista dei nuovi alimenti (novel food) su cui l’Ue sta lavorando, non essendo considerabili stupefacenti.
Nel frattempo Messico, Macedonia e Israele stanno discutendo di legalizzazione tout court della cannabis, mentre in Africa e America latina aumentano i paesi che ne consentono la produzione per fini terapeutici.
A casa nostra, invece la politica sembra impantanata, incapace di trovare una via che altrove sembra ormai segnata.