Siamo tutti reclusi in questo anno di pandemia, ma c’è chi è più prigioniero di altri, più esposto ai rischi, più abbandonato. In questi mesi i detenuti stanno vivendo la più dura delle carcerazioni, impediti in gran parte delle attività e dei contatti con l’esterno, finanche con i familiari che possono vedere di persona, una volta al mese e separati da una barriera di plexiglas. Unico conforto: il telefono. Il tutto per misure di prevenzione giustificate dal fatto che le carceri sono comunità chiuse, in cui convivono centinaia, se non migliaia di persone, in spazi insufficienti e con scarse condizioni igieniche; in cui è impensabile seguire le indicazioni di prevenzione e distanziamento fisico. Se le persone sono rinchiuse, il carcere è però un “luogo aperto”, purtroppo anche al contagio, dove ogni giorno entrano ed escono molti addetti.
Appare drammaticamente evidente che le prigioni rappresentano uno dei posti a più alto rischio di rapida diffusione del virus in caso di contagio.
Non a caso il Comitato Nazionale per la Bioetica, nel Parere dello scorso 28 maggio, definisce le carceri come “situazione particolarmente critica”, anche perché “critiche sono le condizioni di partenza” e inserisce le persone rinchiuse tra i “gruppi più vulnerabili” al contagio, assieme agli anziani confinati nelle RSA.
Ma se le carceri sono come le RSA e i detenuti rappresentano un gruppo “ad alta vulnerabilità bio-psico-sociale”, come mai non sono stati inseriti tra le categorie prioritarie della campagna vaccinale contro il Covid-19, a differenza degli ospiti delle RSA? Se negli istituti di pena l’età media è più bassa e le condizioni igienico-sanitarie certamente peggiori, la diffusione delle patologie pregresse non è certamente importante? Non va garantito loro il diritto alle pari opportunità nella tutela della salute o, forse, il timore di reazioni forcaiole è più forte?
Nonostante i dati ci dicano che solo l’asintomaticità sta, per il momento, limitando il numero delle vittime, neppure l’appello della senatrice a vita Liliana Segre e di Mauro Palma, garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà ha rotto il muro della resistenza legato al ricatto del consenso.
Eppure nelle circa 200 carceri italiane vivono e lavorano più di 100.000 persone; oltre a detenuti e detenute, anche operatori di polizia penitenziaria, personale socio-sanitario, amministrativo e di direzione. Persone quotidianamente a rischio personale, ma anche potenziali diffusori del virus.
Per tutte queste ragioni, la Società della Ragione ha lanciato una petizione (Covid19: subito il vaccino nelle carceri: www.change.org/vaccinonellecarceri) rivolta al Ministro della Salute e al Commissario straordinario per l’emergenza Covid, per il rispetto delle indicazioni fornite dal CNB. Si chiede che i detenuti, gli operatori penitenziari e tutti coloro che svolgono attività lavorative ed educative in carcere, vengano inseriti tra le categorie prioritarie nella vaccinazione contro il Covid 19, al pari degli altri ospiti e degli altri operatori di comunità chiuse.
Occorre mettere fine a questa palese discriminazione nei confronti di soggetti ugualmente vulnerabili, la cui salute è totalmente nelle mani delle istituzioni che, seppur a titolo diverso, li custodiscono.
Anche le Regioni, ognuna nell’ambito di operatività stabilito dal Piano Nazionale, potrebbero svolgere un ruolo importante. Qualora residuassero le dosi di vaccino assegnate nella fase uno (per mancanza di richiesta, ad esempio), si potrebbe individuare autonomamente target di popolazione ulteriore da vaccinare con priorità, proprio come i detenuti e quanti lavorano negli istituti di pena.
È ora di porre rimedio verso una “dimenticanza”, che rischia di apparire agli occhi dei detenuti e delle loro famiglie solo come una pena aggiuntiva.
Aderisci alla petizione per il vaccino COVID19 nelle carceri: https://www.change.org/vaccinonellecarceri