Il voto all’ONU del 2 dicembre 2020 avrebbe dovuto chiudere il capitolo “dagli alla cannabis”, per l’appunto da un paio di mesi, a porte chiuse, si stanno creando nuovi ostacoli per l’accessibilità alla pianta.
Il 22 gennaio, e poi dall’8 al 23 marzo, la Giunta internazionale sugli stupefacenti (INCB) ha convocato una serie di riunioni e seminari per discutere al proprio interno, e successivamente colle autorità nazionali, i requisiti di controllo e monitoraggio della cannabis e delle sostanze correlate per “aiutare gli Stati membri a migliorare le loro capacità di controllo e comunicazione sulla materia”. All’incontro di gennaio hanno partecipato 16 esperti di tutto il mondo ai seminari successivi un centinaio di paesi.
La discussione di merito ha passato in rassegna i problemi di controllo e conformità internazionale relativi alla cannabis nonché “le buone pratiche di coltivazione della pianta e alla sua produzione e commercio internazionale e quella di prodotti ad essa correlati”. Stando alle comunicazioni ufficiali si è sottolineata l’importanza di garantire la disponibilità di sostanze a base di cannabis per scopi medici sottolineando che la raccolta dei dati che la interessano dovrebbe migliorare per riflettere adeguatamente le esigenze dei sistemi sanitari. Grande attenzione è stata data anche alle “disparità nelle capacità di controllo e monitoraggio dei paesi in diverse regioni del mondo”.
Sono state elaborate delle linee-guida perché l’INCB possa “sostenere gli Stati membri nel miglioramento delle capacità di controllo e segnalazione” della produzione assicurando “la disponibilità di cannabis e suoi derivati per scopi medici e scientifici prevenendo la deviazione verso canali illeciti e abusi”.
Il linguaggio utilizzato per comunicare l’iniziativa e le sue conclusioni è rintracciabile – tale e quale – nei comunicati dell’ONU di Vienna degli ultimi 30 anni: giustificare il lavoro sui dati e le buone pratiche politico-legislative per evitare che la cannabis sia consumata da chi non ne fa uso terapeutico.
Malgrado la cancellazione della cannabis dalla IV Tabella della Convenzione del 1961, nell’organo deputati al monitoraggio dell’applicazione delle Convenzioni sulle droghe si insiste con la promozione dell’interpretazione più proibizionista dei documenti internazionali, un approccio che ha messo fuori legge consumi e produzioni personali, anche in minima quantità, creando danni collaterali e ostacoli alla ricerca scientifica e uso terapeutico di piante e derivati che le convenzioni dovevano promuovere.
All’interno dell’INCB ci sono divisioni dovute alla provenienza geografica dei membri e alle specializzazioni, 13 esperti che non “dettano legge” ma monitorano l’applicazione delle Convenzioni ONU sugli stupefacenti del ‘61, ‘71 e ‘88 possono comunque condizionare il dibattito con documenti tecnici che creano scuse e alibi per i proibizionisti di tutto il mondo.
Se da una parte ogni confronto istituzionale è da salutare, la riunione a porte chiuse del gruppo di esperti di gennaio e le consultazioni occorse successivamente sembrano non tenere in considerazione il voto sulla cannabis del dicembre scorso.
Quando si deciderà che i contributi di esperti, governi, società civile e aziende devono esser condivisi pubblicamente per facilitare l’accesso alle piante sotto controllo, avviare nuove ricerche, finanziare trial clinici, ampliarne la produzione e commercio secondo i protocolli previsti? Senza questi confronti si persisterà con la violazione del diritto alla salute di milioni di persone in tutto il mondo.
L’anniversario della Convenzione del 1961 verrà ricordato il 30 marzo con un webinar internazionale dalle 18 – Iscriviti su www.fuoriluogo.it/epicfail.
Vai allo speciale “Cannabis e OMS” su www.fuoriluogo.it/oms