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Capita che alcuni singoli fatti si addensino in uno scorcio di tempo breve, di pochi mesi, e che incrocino il lavoro che andiamo da tempo svolgendo su alcune questioni che ci stanno a cuore, e che questo faccia venir voglia di riflettere a voce alta, cercando di trovare un filo rosso. Di seguito qualche nota per continuare a coltivare pensiero critico sulle politiche sulle droghe e soprattutto per continuare a dire che abbiamo una alternativa al modello della “war on drugs”. Prima di tutto, una alternativa a come alle droghe si guarda.

Ricapitolando, i fatti.

1. La gogna di Severgnini

L’articolo di Beppe Severgnini sul Corriere della Sera contro chi usa cocaina[1], contro perché la proposta è di esporre i consumatori a gogna pubblica, per palesare riprovazione e biasimo sociale, e instillare in loro vergogna e senso di colpa per le proprie condotte, con ciò – immagino – pensando a un potere sociale deterrente in grado di farli recedere, stante che il potere deterrente del codice penale e del carcere pare non avere effetto alcuno (come ci dicono dati e fatti). Non so se a Severgnini è parso di dire una cosa brillante o anche solo provocatoria, o fuori dal coro, o magari addirittura coraggiosa; in questo caso andrebbe chiarito che questo “brillante e provocatorio” pensiero attraversa e a lungo domina la storia delle politiche sulle droghe negli ultimi cento anni (rileggere o leggere Giancarlo Arnao[2]), è un pensiero che è stato a lungo dominante ed è uno dei consolidati paradigmi di lettura del fenomeno – si chiama appunto “paradigma morale”. Dunque, nulla di nuovo. Dove per lunga pezza questo approccio è stato (ed è) dominante, come in Italia, abbiamo avuto da un lato una crescita esponenziale dei consumi, e una loro normalizzazione, cioè, alla faccia della riprovazione e degli imprenditori morali, sono diventati condotta di massa e ampiamente ordinaria e non più considerata da buona parte della società comportamento deviante; e dall’altro lato, e intanto, però ha portato una gamma infinita di danni e prezzi pagati dai singoli e società, sofferenze inutili a fronte di risultati nulli[3].

2. I pompieri di Alessandria

La gestione, da una parte della stampa locale, della notizia che i tre vigili del fuoco di Alessandria, morti tragicamente mentre facevano il loro lavoro durante l’intervento per un incendio in una cascina, erano risultati positivi, due alla cannabis e uno alla cocaina. Positivi, non alterati durante il lavoro. Tre eroi, per tutti, tre eroi di fatto, per il loro comportamento. Tre eroi caduti, secondo quella stampa locale. Ma caduti da cosa e dove? Non hanno permesso questa operazione vigliacca gli alessandrini, che sono andati sotto la redazione del giornale a far sentire la loro voce[4] (bravi), e così, giù le mani dai tre pompieri. Mi è venuto in mente che qualche anno fa, nell’ambito di un ciclo di incontri su droghe e cinema in Campania, sono stata invitata a parlare di cocaina, e in particolare a esporre i risultati delle ricerche sul consumo controllato di cocaina[5]. Ho scelto il film The flight, con (un sempre splendido) Denzel Washington nel ruolo di un pilota di aereo che salva tutti i suoi passeggeri, facendo l’impossibile con un jet in avaria, e diventando un osannato eroe nazionale. Ai controlli però risulta positivo alla cocaina, e nel film si vede che la assume prima di decollare dopo una notte insonne di alcool e sesso, evidentemente cercando di essere performante e non abbioccarsi ai comandi. Cosa che la cocaina puntualmente fa, del resto è uno dei suoi effetti, quello di far rendere di più e meglio. Ovviamente l’eroe diventa un angelo caduto, poi siamo negli States, patria dell’approccio morale alle droghe, e dunque finisce in galera, percorso rieducativo, dura riconquista della stima di moglie e figlio, pentirsi e rigare dritto. Quella sera, ad Avellino, il dibattito è stato intenso, e il discorso del consumo controllato di droghe esercitato da parte di chi ne fa uso, non è passato indenne da resistenze e qualche sconcerto. I fatti contano? Le biografie contano? Il fatto di morire spegnendo un incendio, senza risparmiarsi, o di far sopravvivere 300 persone in un aereo che si sta schiantando al suolo, conta di più o di meno meno del fatto di avere in corpo qualche traccia di una qualche molecola psicoattiva? L’evidenza della competenza, della lucidità, del coraggio, della capacità “anche con” quella presenza chimica in corpo non è sufficiente, perché ciò che governa, in questo caso, il giudizio è un doppio pregiudizio: da un lato morale (se sei uno che usa non puoi avere la stoffa dell’eroe, per definizione) ma dall’altro anche farmacocentrico (se usi, quelle molecole ti impediscono comunque di avere comportamenti eroici, razionali, funzionali, chiunque tu sia). Una pessima alleanza tra i due paradigmi, morale e disease, che, contro quanto sostiene qualcuno, sono spesso più amici che competitor. Anche Severgnini potrebbe stupirsi a scoprire che, per esempio, il suo dentista o il suo commercialista tirano cocaina, ogni tanto, e però fanno bene il loro mestiere: magari perché usano quando possono farlo, perché scelgono momento e luogo, perché regolano e non esagerano, perché la trovano buona e non tagliata male. Metterli alla gogna?

3. La questione morale

Un amico segnala un articolo sulla rivista di Federserd,[6] una delle associazioni scientifiche degli operatori pubblici del settore, chiedendo in chat cosa ne pensiamo. Do un’occhiata, dalle prime righe vedo riproporre “la questione morale”, scorro trasversalmente il testo e dico no grazie, ne ricevo segnali di vecchio discorso e ne ricavo anche segnali di irritazione. “Rifiuto implicito di prendere in considerazione criteri morali come strumenti di valutazione del comportamento di assunzione di droghe” o “la rinuncia nei fatti e nella episteme a considerare i comportamenti di dipendenza come comportamenti inquadrabili anche moralmente”: potrebbe essere davvero troppo per una che da 25 anni si batte contro questo paradigma e insegna a generazioni di operatori il sano approccio del non giudizio, ci manca solo che gli operatori si sentano riproporre un mandato da imprenditori morali. Chiudo il file e mi dedico ad altro. Poi però ci ritorno, perché qualcosa mi gira nella mente, grazie a Severgnini e ai pompieri. Leggo e quello che scopro è un fraintendimento alla radice, nel ragionamento, fraintendimento rivelatore. E non innocente. L’autore ce l’ha con i suoi colleghi, quelli del paradigma medico. Quello della malattia cronica e recidivante, quello della brain disease, per cui trattandosi di malattia, non si possono biasimare i malati (che, poi, evidentemente, sono incapacitati? Ecco, anche Netflix e Muccioli, tutti in scena…) e dunque tanto meno reputarli responsabili. Allora capisco che, forse, il nodo dell’articolo sta nel recupero del paradigma morale come tentativo di “addolcire” quello disease, introducendo una qualche soggettività responsabile di chi consuma versus l’incapacitazione da malattia, passando attraverso, appunto, lo strumento del giudizio morale. Insomma, restituendo a chi consuma una qualche “soggettività morale”, tramite il giudizio sulla sua responsabilità relativa al consumo e ai suoi esiti. La questione è vecchia, anzi vecchissima, il gioco a rimpiattino tra i due paradigmi dominanti, un po’ a te un po’ a me: preferisci la gabbia del deviante (responsabile) o quella del malato (irresponsabile)? L’incapacitazione (e “farla franca”) o la responsabilità (e “pagarla”)? Bella alternativa. E tristissima “via d’uscita” anche per ogni operatore, che si ritrova chiuso tra un farmacocentrismo senza soggetto e il giudizio morale con un soggetto limitato alla sua dimensione di colpevole da biasimare. E allora la domanda è: davvero abbiamo bisogno di biasimare chi consuma per ritrovare una sua qualche soggettività?

Tre mosse per andare avanti

Credo che l’evidente avvitamento senza sbocco dei due paradigmi richieda uno scarto, una mossa del cavallo. Una via di fuga. Sottrarsi, sconfinare. Alzare lo sguardo.

Che le molecole annichiliscano il soggetto o che lo faccia la colpa, in ogni caso non c’è, e tanto meno in questa rinnovata riscoperta del giudizio morale, alcuna restituzione di soggettività a chi consuma. Questa mancata restituzione di soggettività è quello con cui abbiamo a che fare, in tutti e tre gli esempi citati.

Mi vengono in mentre almeno tre movimenti per questa via di uscita, e per questa necessaria restituzione.

  • Superare la protervia della tassonomia della devianza o della malattia, e smettere di leggere l’altro attraverso lo sguardo patologico, il binarismo sano/malato, o quello morale, deviante/conforme, che ne fa soggetto dimezzato; pretendere che questo sguardo patologico e morale sappia cogliere la soggettività e l’interezza di chi consuma, è esercizio inutile: il soggetto è sempre “altro” e molto più di quanto lo sguardo delle discipline e dei poteri che su di esse si fondano voglia vedere. É a causa di questa miopia non innocente che del soggetto non si sanno cogliere ragioni, intenti, obiettivi, significati, capacità, culture, aspettative. Umanità, dignità, diritti. Soggettività. Insomma, interezza. E’ solo guardando all’altro nella sua interezza, che se ne vede la capacità di rispondere, come persona intera, alle domande e alle sfide della propria vita. Si tratta di riconoscere soggettività, ora scarnificata e negata dallo sguardo farmacocentrico e da quello morale, per cui se c’è di mezzo una molecola psicoattiva il soggetto – e tutte le sue caratteristiche e capacità – scompare o si dimezza. Tolto di mezzo questo sguardo ideologico, contrabbandato per scientifico, si scoprirà un soggetto pensante, esperto di sé, un attore dei propri gesti. Magari fragile, a tratti, ma non per questo meno intero. Processo, questo del riconoscimento della soggettività, non indolore, perché implica prima di tutto una critica profonda agli sguardi dominanti e ai ruoli di potere che li riproducono (dunque anche i nostri), prima ancora o comunque insieme alla decostruzione critica dell’immagine stereotipata della persona che consuma.
  • Farla finita con l’ingiustizia epistemica: quel processo che fa del soggetto che usa sempre un “nominato” e mai un soggetto che nomina e si nomina. Ciò che il soggetto dice (di sé, delle sue scelte, del suo mondo, delle sue culture e, sì, anche del suo consumo e dei suoi significati) è la sua teoria personale su di sè e su di sé nel mondo. É la sua visione politica di sé e del mondo. Queste parole sono legittime, vanno ascoltate, capite nel loro significato, avvicinate, non oggettivate come sintomi o indizi patologici (nella citata, circolare autoconferma della malattia o del vizio morale), ma lette come il discorso legittimo di una teoria della vita. Si scoprirebbero così anche i significati attribuiti a gesti, scelte, accadimenti, e in essi si potrebbero rintracciare anche la libertà e la responsabilità individuali, incluse la libertà e la responsabilità del e nel consumo di droghe. Non è più utile, questo esercizio di riconoscimento, e anche meno arbitrario, di star lì a comminare giudizi morali su tali gesti, scelte, accadimenti?
  • Uscire, sconfinare in mille direzioni: tra discipline, tra istituzioni e società, tra saperi specialistici e politica, tra epistemologie, quelle riconosciute e quelle corsare. La sensazione di asfissia che si prova nei nostri mondi delle droghe (con le dovute eccezioni, ma che sono poche) è un mix tra paradigmi totalitari, presuntuosi e autoreferenzialità (tanto appunto da non porsi nemmeno la sana domanda: ma a chi importa del nostro giudizio morale?); quella che si vive nel dibattito pubblico non specialistico è la potenza e la perseveranza quasi soprannaturale, a prova di bomba, autoreferenziale, delle immagini costruite socialmente, funzionali al penoso stato presente delle cose, che ignorano i fatti delle vite di chi consuma (il bravo dentista di Severgnini e i bravi pompieri di Alessandria, e sempre il bravo pilota Denzel Washington). Le due dimensioni – patologica e morale – si sorreggono a vicenda, sono il gatto e la volpe del discorso dominante sulle droghe. Specialisti e intellettuali sembrano aver rotto ogni patto con la realtà, aver interrotto il farsi interrogare da storie, voci, esperienze, epistemologie altre, e sì, anche fatti (l’85% delle persone che usano lo fanno dentro una vita che continua, magari anche intera…, e aggiustano denti, spengono incendi e atterrano in avaria).

E’ tempo di smettere di leggere le persone attraverso le droghe e di cominciare a leggere le droghe attraverso le persone: si scoprirà che le sostanze entrano nelle vite quotidiane di molti senza stravolgerle, che a volte sono funzionali (al piacere, per esempio, al benessere), che il soggetto non smette di esistere per una molecola, che se perde a volte il controllo poi lo può recuperare (e i più lo fanno senza aiuto professionale), che ci sono culture e norme sociali a protezione e a promozione di stili di consumo sostenibili e sicuri. Accade per l’alcool, accade per tutte le droghe, anche se illegali, come bene hanno dimostrato Norman Zinberg 35 anni fa[7] e di nuovo Carl Hart oggi[8].

Circa venticinque anni fa mi sono avviata, con altre e altri, verso un paradigma meno protervo, meno presuntuoso, più ospitale, debitore alla fenomenologia, quello dell’apprendimento sociale, che aiuta a vedere il soggetto nella sua interezza, e ad assumere la sua epistemologia come legittima. Uno guardo realistico, se si sa vedere vita e comportamenti dei più che usano, e insieme positivo, perché ci dice che socialmente i consumi sono governabili, se si parte dalle competenze dei soggetti, da culture condivise e da un contesto sociale non ostile. Questa prospettiva – e la sua corposa letteratura – dovrebbe almeno incuriosire gli intellettuali e suggerire loro che forse il lavoro di decostruzione dei concetti e delle immagini in base ai quali scrivono di droghe dovrebbe essere propedeutico e, sotto il profilo intellettuale, dovuto.

Ma quello che mi sento di dire con maggior enfasi riguarda gli esperti del settore, noi, riguarda la politicità intrinseca dei nostri mestieri: il nostro non è un potere solo tecnico, è un potere politico, anzi, biopolitico e non c’entra solo la cura. Ha a che fare con la vita, le vite degli altri e con il loro disciplinamento; con la costruzione sociale di un fenomeno; con la stigmatizzazione o meno di soggetti e comportamenti; con il controllo e la normatività sociale. È già un bel fardello da governare. Vogliamo davvero metterci anche il giudizio morale come parte della nostra mission?

Susanna Ronconi
Forum Droghe

Note

[1] Beppe Severgnini, Dobbiamo rompere il silenzio sulla piaga della cocaina, 4 settembre 2020 https://www.corriere.it/opinioni/20_settembre_04/dobbiamo-rompere-silenzio-a9cf9958-eec3-11ea-9589-37746edd34df.shtml

[2] Giancarlo Arnao, Proibito capire. Proibizionismo e politiche di controllo sociale, ed Gruppo Abele, 1990

[3] Forum Droghe, Cocaina. Forum Droghe risponde a Severgnini, 5 settembre 2020, https://www.fuoriluogo.it/forum_droghe/comunicati_stampa/cocaina-forum-droghe-risponde-a-severgnini/

[4] Fabio Scaltritti, Droghe, lo scoop di provincia offende tre eroi, Rubrica Fuoriluogo, il Manifesto, 27 gennaio 2021, https://www.fuoriluogo.it/rubriche/la-rubrica-di-fuoriluogo-sul-manifesto/droghe-lo-scoop-di-provincia-offende-tre-eroi/

[5] Grazia Zuffa (a cura di) Cocaina. Il consumo controllato, EGA, 2010; Grazia Zuffa e Susanna Ronconi, Droghe e autoregolazione. Note per consumatori e operatori, Ediesse, 2017

[6] Maurizio Fea, Chi ha paura del lupo cattivo? Mission, Novembre 2020, https://www.federserd.it/files/download/Mission54_online.pdf

[7] Norman Zinberg N. (1984, 2020) , Droghe, set e setting. Le basi dell’uso controllato di sostanze psicoattive, EGA , 2019

[8] Carl Hart, Drug use for grown-ups. Chasing liberty in the land of fear, Penguin Press,2021

Crediti: foto di Nathan Congleton su FLICKR https://www.flickr.com/photos/nathancongleton/30937063573/in/dateposted/