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L’attuale penetrazione nel mercato italiano della cocaina non può essere letta come l’approdo designato di una generazione che ha riscoperto le sostanze psicotrope attraverso la stagione del consumo di metamfetamine (ecstasy) e dei policonsumi. È la solita, stanca storia della “droga di passaggio”: l’hascish porta d’accesso dell’eroina, le pasticche rappresentano il primo passo verso la cocaina.
La cocaina è altro. Ha un altro compito nella società, un altro ruolo per le persone. Ma è anche tante altre cose, anzi non è, attualmente, tante altre cose: non è esclusivamente la droga dei giovani, né quella degli adulti; non è solo la sostanza della cultura dominante, né quella preferita delle controculture; non è più la droga delle classi agiate, ma è consumata anche dai ceti medi e popolari, non è la droga delle periferie, ma non si consuma solo al centro. Non è la droga solo di chi lavora, né la droga del tempo libero. Anzi, la cocaina aiuta a comprendere come tale distinzione non abbia più senso.
Le tesi di Alain Ehrenberg sembrano fornire strumenti esplicativi assai convincenti. Il sociologo francese evidenzia come la contrapposizione, valida sino agli anni ‘50 e ‘60 dello scorso secolo, tra ciò che è permesso e ciò che è vietato è stata ormai sostituita, nella mente dell’uomo occidentale, dalla scelta alternativa tra ciò che risulta essere possibile e ciò che è ritenuto (per ora) impossibile.
All’affievolimento della nozione di divieto fa seguito la riduzione drastica del ruolo della disciplina nelle forme di regolazione del rapporto tra individuo e società, forme, dice Ehrenberg, «che oggi fanno appello più alla decisione e all’iniziativa personali che all’obbedienza disciplinare. La persona non è mossa da un ordine esterno (o da una conformità alla legge), ma occorre che faccia appello a risorse interne, a competenze mentali proprie».
L’iniziativa è divenuta una regola comune, valida a tutti i livelli societari, e misura ciascuno di noi, descrivendo chi è all’interno di una sorta di “spirito generale” della nostra società e chi ne risulta inevitabilmente emarginato. La patologia che tale assetto societario porta con se è, secondo Ehrenberg, la depressione che «è una tragedia dell’insufficienza: l’ombra anche troppo familiare dell’uomo senza guida, intimamente spossato dal compito di diventare semplicemente se stesso e tentato di sostenersi con l’addittivo dei farmaci o dei comportamenti compulsivi».
Per molte persone, la cocaina svolge il ruolo di un farmaco, autoprescritto e autosomministrato. La presenza della depressione come patologia nello stesso tempo di massa e societaria, rappresenta uno dei possibili fattori esplicativi della straordinaria diffusione dei consumi della cocaina in Europa e in Italia. Ma le forme di tali consumi e l’estrema varietà dei cluster sociali coinvolti (distinti per età, genere, ceto, cultura, ruoli…) costringono a non pervenire a inferenze definitive. Anzi, piuttosto che di cocaina, forse occorre parlare di cocaine, al plurale, per descrivere come la stessa molecola possa accompagnare personalità, ruoli e status assai diversi, motivando, come si è visto dai dati, per tanti individui un uso sporadico, per molti un uso frequente; per una percentuale assai più contenuta consumi problematici e dipendenza. Scrive Günter Amendt in No drugs, no future, che gli individui nella società postindustriale sono lasciati alla “autoresponsabilità”: ognuno è in concorrenza con l’altro e tutti lo sono contro tutti. L’autoresponsabilità non si limita, però, solo all’ambito lavorativo: colonizza tutto lo spazio vitale degli individui, compreso lo spazio del loisir, i rapporti interpersonali, quelli tra le generazioni e anche tra i generi.
Arriva oltre: colonizza il corpo, il corpo postmoderno: «Il corpo postmoderno è prima di tutto un recettore di sensazioni: assorbe e assimila esperienze, e la sua attitudine e capacità ad essere stimolato lo trasforma in uno strumento di piacere. La presenza di una tale attitudine/capacità è chiamata “benessere” (fitness); al contrario, lo stato di “mancanza di benessere” significa debolezza, indifferenza, svogliatezza, depressione, apatia verso gli stimoli; oppure indica una sensibilità limitata e un’attitudine “sotto la media” verso nuove sensazioni ed esperienze»: così Zygmunt Bauman, nel suo libro La società dell’incertezza.
Siamo sempre più in presenza di un corpo che consuma tutto ciò che può offrire sensazioni ed esperienze di piacere, come dimostra egregiamente la pubblicità, sempre meno preoccupata di mostrare la qualità dei prodotti e sempre più concentrata ad enfatizzare le emozioni che tali prodotti assicurano. Un corpo, dice Bauman, che ha paura di ciò che può procurare dis-piacere, o una «mancanza di piacere, o un piacere più effimero del previsto: una delusione».
Seguendo questa traccia, per alcuni, quando nella vita compare una delusione, il corpo postmoderno ha a disposizione una farmacopea sempre più adeguata, messa a disposizione dai diversi mercati che parallelamente si occupano della riparazione degli stati di mancanza di piacere.
Tali corpi necessariamente vivranno l’esperienza dell’addiction, della dipendenza? «Quelli che diventano cocainomani sono una percentuale relativamente modesta dei consumatori di cocaina», precisa Gian Luigi Gessa, nel suo recente scritto sulla cocaina. Altri ne fanno un uso più intenso, alla ricerca di sensazioni, ovvero di più energia fisica, più attenzione, più socializzazione, più stimolazione sessuale ecc.; si tratta di individui che pur avendo sviluppato una forma di dipendenza, non vedono la loro vita modificata o interferita dalla sostanza. È una tesi condivisa da molti operatori che lavorano quotidianamente nei progetti di prevenzione e riduzione del danno.
Claudio Cippitell