L’estate sta finendo e un anno se ne va… Era l’incalzante mantra di un successo estivo di molti anni fa. Siccome non sono mai solo canzonette (tanto per rimanere in tema di musica leggera), va detto che una cosa vera quel brano l’aveva messa a fuoco: il capodanno esistenziale, il momento dei bilanci e dei progetti, non cade a cavallo tra il 31 dicembre e il 1° gennaio, ma nel cuore rovente dell’estate, a Ferragosto e giù di lì. Vale per i progetti individuali, le microstorie di ognuno di noi, e per le grandi ambizioni sociali e politiche.
Chissà se incendi, temperature africane in Canada e pianura padana, pandemia hanno fatto davvero capire che siamo tutti su una stessa barca e che si può sopravvivere soltanto se si ci si prende seriamente cura delle periferie esistenziali, come le chiama Papa Francesco.
Temo di no, e alla constatazione amara si aggiunge la tristezza – da unire rigorosamente alla lotta per continuare le sue pratiche – per la scomparsa di un monumento come Gino Strada.
In periodo di meditazioni estive, mi vengono alla mente le volte che ho incontrato Emergency. Sulle pagine dei giornali, certo, leggendo di Kabul e di tutti gli scenari di guerra.
Ma anche nella città di Sassari, in quel lavoro di magistrato di sorveglianza che ti mette in quotidiano contatto con i margini del Paese. Se non fosse per i volontari di Emergency nel Palazzo Rosa – l’edificio che ospita l’azienda ospedaliera –, detenuti, migranti, tossicodipendenti, persone senza fissa dimora (residenti in via dell’Anagrafe 1, secondo la versione burocratica che compare sui fascicoli), “poveri matti” non avrebbero diagnosi, cure per le patologie più semplici, medicine, spiegazioni, dentiere. E ora neppure il vaccino.
Qui la memoria si fa subito cronaca. A fronte di chi “si permette di rinunciare alla propria dose vaccinale, ipotizzando assurde controindicazioni” (così Gino Strada a Dorella Cianci, Avvenire, 13 agosto 2021), c’è chi il vaccino vorrebbe farlo, ma non può.
Stesso elenco di persone di prima, del tutto scomparse dai radar del dibattito sul Green pass proprio perché fuori dal perimetro delle garanzie. Se le mense Caritas non gli chiedono la certificazione verde per sedersi a tavola è soltanto perché da più di un anno non si mangia in mensa ma si dà il pacco da asporto. Le stesse regole, però, non valgono per ostelli, mense sociali e tutta una serie di servizi per i quali o sei vaccinato o devi esibire i risultati di un tampone molecolare.
Il fatto è che per accedere a quel benedetto vaccino devi essere inserito in un circuito di protezione sociale di cui molti (troppi) non possono beneficiare. E così, quelle persone vivono un triplice livello di discriminazione: senza vaccino, senza prestazioni essenziali (a partire da cibo e tetto), ma con lo stigma dell’untore che si aggiunge a un già ricco e negativo etichettamento. A loro si dedicano esclusivamente i volontari – compresa una chiesa che in periferia sa ancora essere realmente dei poveri –, magari accettando di dover fare i conti con un’autorità giudiziaria che troppo spesso spezza le catene della solidarietà in nome di leggi (favoreggiamento degli ingressi) che fanno a pugni con la Costituzione.
In alternativa c’è sempre il carcere. Quante volte siamo costretti a vedere persone che tra le mura ritrovano qualcosa da mangiare, cure e ora il vaccino, sempre che uno abbia la fortuna di essere arrestato al momento giusto.
Non sembra che questi esseri umani siano ricompresi nel dibattito pubblico sul Green pass, tanto meno sul Recovery (anche se il nome sembra cucito su di loro). È una colpa madornale, alla quale occorre opporsi con tutte le risorse culturali e professionali di cui si dispone. Per cambiare verso. Come diceva Eduardo Galeano, “dopo tutto, siamo ciò che facciamo per cambiare ciò che siamo”.