Il carcere di Udine si appresta ad affrontare non una semplice ristrutturazione, ma la riconversione di un’istituzione con l’ambizione di diventare un modello di vita e di relazioni, per il reinserimento sociale.
Un modello che ci auguriamo possa essere esportato e riprodotto nelle tantissime realtà carcerarie italiane dove, ad eccezione di sporadici casi, edifici insensibili accolgono persone inanimate, o quanto meno considerate tali, visto che non sono previsti ambienti e strutture per i bisogni umani.
Infatti, l’ambiente in carcere diventa essenziale per la dignità stessa della pena: luoghi e spazi inadeguati sono destinati a tramutarsi in pochi diritti.
E’ quello che accade con l’affettività dei reclusi, solo per citare un esempio di diritto mortificato. Stanze-colloquio piccole e affollate, tali da non consentire neppure l’intimità di una conversazione (figurarsi di altro!); spazi verdi inesistenti o scarsamente attrezzati, che impediscono ai bambini di esprimersi; telefoni collocati nel bel mezzo del chiasso delle sezioni. Sono tutte condizioni che chi ha varcato l’ingresso di un carcere conosce bene ma che, al di fuori, non si conoscono. Forse perché intorno alla galassia carcere ruotano troppi pregiudizi, stereotipi e preoccupazioni legati a una realtà per sua definizione chiusa, oltre che ad un approccio culturale dove il binomio “più carcere-più sicurezza” continua ad avere la meglio.
Da una mia recente ricerca – condotta con l’Università di Cassino e del Lazio Meridionale, in alcune strutture carcerarie del Lazio e volta a fotografare la qualità delle relazioni affettive e familiari dei detenuti, prima e durante l’emergenza sanitaria, – emerge un quadro di diritti violati. Una condizione dove le relazioni affettive si rivelano in bilico, connotate come sono da bisogni insoddisfatti e gesti privi di intimità.
Un riflesso non solo legato all’annosa questione del sovraffollamento – che oramai più che un’emergenza sembra diventata una connotazione strutturale del nostro sistema carcerario – ma anche dalla mancanza di spazi, luoghi e tempi adeguati.
Una violazione sistematica di diritti costituzionali che genera un profondo senso di insicurezza sul rientro in società, che deresponsabilizza il detenuto verso i propri figli, che rende sempre più lontano quel processo di risocializzazione della pena che l’art 27 della Costituzione ci indica e che qualcuno propone impudicamente di modificare.
Nel convegno tenutosi proprio ad Udine lo scorso 12 e 13 novembre per presentare il progetto del nuovo volto della Casa circondariale Santoro – a cura della Società della Ragione, del Garante di Udine e dell’associazione Icaro – tutti i presenti hanno convenuto su un punto. Giuristi e architetti, terzo settore e garanti, istituzioni territoriali e amministrazione penitenziaria hanno concordato sull’improcrastinabilità di un impegno concreto per migliorare la condizione detentiva dei reclusi.
L’istituzione della Commissione per l’innovazione del sistema penitenziario, voluta dalla Ministra Cartabia, rappresenta indubbiamente un nuovo impulso per realizzare elementi di innovazione. Una priorità è rappresentata dal disegno di legge n. 1876, a tutela delle relazioni affettive e intime delle persone detenute, su iniziativa del Consiglio Regionale della Toscana, che ha iniziato un difficile iter con relatrice Monica Cirinnà.
Eppure fino a quando non si uscirà dalla logica distorta della premialità per entrare in quella dei diritti costituzionalmente garantiti e coessenziali alla persona umana, nessuna riforma strutturale potrà trovare spazio nel nostro Paese.
Perché, prendendo a prestito le parole del prof. Ruotolo in un suo recente scritto, limitare la libertà personale non può e non deve tradursi nella limitazione della libertà della persona, che resta tale fuori e dentro le mura del carcere.