Agli inizi di ottobre, è stato presentato a Londra nella prestigiosa sede della Camera dei Lord il rapporto sulla canapa della Beckley Foundation, redatto da una Commissione speciale composta da esperti internazionali al più alto livello. La mission della Beckley Foundation è gettare un ponte fra la ricerca e coloro che devono prendere le decisioni politiche, offrendo materiali e spunti di riflessione sostenuti da evidenze scientifiche: il rapporto sulla canapa si propone di operare una valutazione sull’efficacia delle politiche globali di proibizione. Sulla base dei dati e delle evidenze raccolte dagli studiosi della Commissione speciale, il responso sulle attuali politiche è netto: non ci sono evidenze a supporto delle attuali politiche, mentre molte sono le conseguenze negative. Non c’è prova che lo strumento penale serva a contenere i consumi, mentre chiaramente «provoca danno alle tante persone che vengono arrestate, e spesso la repressione è applicata ingiustamente a sfavore dei giovani e delle minoranze etniche». Da qui la raccomandazione: passare dalla proibizione ad un sistema di controllo e di regolazione legali, seguendo l’obiettivo di minimizzare i danni per la salute e dunque prevenendo i comportamenti più rischiosi (l’uso intensivo quotidiano, l’uso in età precoce, la guida in stato di intossicazione). ?È il rilancio della legalizzazione, non come tema “ideologico” (come ormai da diversi anni si usa dire), ma come tema scientifico, attraverso un’accurata revisione delle più recenti ricerche e studi di valutazione.
Non sfugga l’originalità, finanche l’audacia dell’approccio: non solo perché il dibattito politico-mediatico si concentra unicamente sulla nocività della sostanza (in particolare sul rapporto con la malattia mentale), trascurando i malanni delle politiche; ma anche perché il “pugno duro” gode ancora di una certa popolarità presso l’opinione pubblica – riconosce onestamente il rapporto. Siamo ad uno stallo: ai radicali cambiamenti nei mercati e nei consumi dai tempi in cui il sistema di proibizione fu varato, non corrisponde alcuna innovazione politica, almeno a livello globale.
A Vienna, nel marzo 2009, i capi di governo di tutto il mondo si riuniranno per la valutazione decennale della strategia antidroga lanciata all’assemblea generale dell’Onu del 1998. Si può perdere questa occasione per rilanciare la riforma delle politiche sulla canapa? Per la Beckley Foundation non si può e il rapporto vuole essere un sasso nello stagno di Vienna.
Vediamo più da vicino in che cosa consiste lo “stallo”. In primo luogo, persiste, in certi casi si accentua, il divario fra scienza e politica. Un caso emblematico è la vicenda della classificazione del dronabinolo (il Thc sintetico): in parole povere, il principio attivo della canapa. Come si sa, le sostanze vietate dalle convenzioni internazionali hanno in genere un uso medico, dunque sono inserite nelle tabelle a seconda del loro valore terapeutico. Poiché la questione riguarda il campo sanitario, la competenza tecnica circa l’inserimento o lo spostamento delle sostanze nelle tabelle è in capo alla Oms, mentre alla Cnd (Commission on Narcotic Drugs), l’organismo politico cui partecipano gli stati membri, spetta la ratifica formale. Nel 2002, la Oms raccomandò lo spostamento del dronabinolo dalla tabella II alla IV, ossia alla tabella meno restrittiva, in seguito ad una attenta rivalutazione del valore medico della canapa. Ma il direttore dell’agenzia Onu sulle droghe persuase la dirigenza dell’Oms a non inoltrare la raccomandazione alla Cnd per «non mandare il messaggio sbagliato». La Oms ripiegò sulla strategia dei piccoli passi e nel 2006 chiese di riclassificare il dronabinolo nella tabella III. Alla Cnd del 2007, chiamata a prendere la decisione finale, lo Incb (International Narcotics Control Board) attaccò la raccomandazione. Lo Incb è l’organismo deputato a sorvegliare l’applicazione delle convenzioni internazionali e non ha alcun compito né competenza scientifica in merito agli usi medici delle sostanze psicoattive: ciononostante, la Cnd rinviò il parere alla Oms perché lo rivedesse «in accordo con lo Incb».
Ancora più clamorosa è la decisione del governo britannico di riclassificare la canapa contro il parere dell’organismo di consulenza scientifico del governo stesso, lo Acmd (Advisory Council on the Misuse of drugs). Nel 2004, dietro indicazione del suo organo tecnico, il Regno Unito aveva spostato la canapa nella tabella C (alleggerendo così l’impatto penale sui consumatori). Da allora, il governo si è rivolto per ben due volte allo Acmd, spaventato dalla campagna allarmistica sulla canapa come causa di schizofrenia. E per ben due volte, lo Acmd ha riesaminato le più recenti evidenze, riconfermando la giustezza della classificazione della canapa come sostanza a minor rischio, fra quelle legali e illegali. L’ultimo documento dello Acmd risale all’aprile del 2008, ma poco tempo dopo Gordon Brown ha deciso di procedere lo stesso allo spostamento in classe B, col risultato di un sostanziale innalzamento delle pene.
Sfogliando il ponderoso rapporto, accanto ad argomenti noti quali la valutazione dei rischi farmacologici, troviamo spunti inediti. La canapa ha un impatto modesto sulla salute pubblica: un recente studio australiano ha cercato di comparare il peso negativo della canapa in confronto ad altre sostanze, attribuendole il punteggio più basso (0,2%) rispetto al 2,3% per l’alcol e al 7,8% per il tabacco. Il mercato della canapa ha caratteristiche diverse da quello di eroina e cocaina perché la sua produzione non è concentrata in zone ristrette bensì diffusa in 134 paesi, fra cui molti dei paesi occidentali dove si consuma. È diffusa anche l’auto-coltivazione. In larga parte la sostanza circola attraverso le reti amicali: una ricerca americana del 2006 mostra che la maggioranza dei consumatori acquista la canapa da amici (l’89%) o la ottiene da loro gratuitamente (59%). Ciò riconferma che la canapa è ormai ritualizzata come droga ricreazionale in occasioni sociali, in maniera sempre più simile all’alcol.
A questo quadro di “normalizzazione” sociale, fa da contraltare una sproporzionata pressione repressiva. In tutto il mondo si arresta di più per la canapa che per le altre sostanze, unanimemente considerate più pericolose: ad esempio, in Australia nel periodo 1995-2000, gli arresti per canapa costituivano i tre quarti del totale degli arresti per droga; in Germania, nel 2005, sono stati il 60% del totale, mentre gli arresti per il solo consumo di canapa assommavano al 45% del totale. Non solo: la pressione poliziesca è aumentata dagli anni ’90 in poi, sia nei paesi del “proibizionismo totale”, come gli Usa, sia (sorprendentemente) in quelli che hanno cercato vie più “morbide” per l’uso personale (eliminando il carcere e ricorrendo a multe o altre sanzioni amministrative). Anzi, sembra proprio che ci sia un comportamento delle forze dell’ordine atto a “controbilanciare” l’alleggerimento penale: è il fenomeno del net widening (“allargamento delle reti”) per catturare un maggior numero di consumatori.
Il quesito chiave per superare l’impasse riguarda il ruolo che la repressione gioca rispetto al contenimento dei consumi: gli arresti servono a scoraggiare i consumatori? Abbiamo evidenze che la punizione sia più efficace a ridurre i consumi di un sistema di depenalizzazione o decriminalizzazione dell’uso personale? Sembrerebbe di no anche se sono pochi gli studi condotti sinora in questo campo. Nel 2004, fu pubblicata una ricerca condotta dai sociologi Reinermann e Cohen su due campioni paragonabili di consumatori di Amsterdam e San Francisco, in due paesi dalle politiche opposte. I modelli di consumo risultavano largamente simili, suggerendo la limitata rilevanza delle politiche penali nel modulare i consumi ?(cfr. Fuoriluogo, settembre 2004).
Interessante anche l’analisi sulle misure di “proibizionismo parziale”, con la sostituzione di sanzioni civili al posto di quelle penali. Se si evita il danno del carcere, rimane pressoché intatto lo stigma del drogato, con i problemi sul lavoro e in famiglia in cui il consumatore può incorrere. Senza contare che la depenalizzazione dell’uso da sola non influisce sulla deregulation dei mercati illegali, dunque rimane la preoccupazione per la salute dei consumatori. Basterà il responso della scienza a smuovere le acque com’è nell’auspicio della Beckley? «La repressione è un articolo di fede per la maggioranza dei politici», ha detto qualcuno alla presentazione del rapporto. Difficile ahinoi dargli torto.
Grazia Zuffa
Se la scienza boccia il proibizionismo
Articolo di Redazione
LA BECKLEY FOUNDATION PRESENTA UNO STUDIO DI VALUTAZIONE DELLE POLITICHE INTERNAZIONALI DELLA CANNABIS