Uno spazio pubblico intitolato a Sandro Margara. Questa è la richiesta alle autorità fiorentine, contenuta in un appello lanciato alla fine di dicembre e che tutti possono sottoscrivere entro la fine di gennaio (https://bit.ly/appellomargara). Uno spazio qualificato, che evochi l’impronta di pensiero e di azione che Margara ha lasciato nel mondo del carcere e della giustizia. Il luogo giusto è all’interno dell’area recuperata dell’ex carcere fiorentino delle Murate: quel carcere teatro negli anni sessanta e settanta delle proteste dei detenuti, che vide più volte l’impegno del magistrato Sandro Margara all’ascolto delle loro ragioni e al dialogo, quale premessa per riformare il carcere nel rispetto dei diritti umani e dei principi costituzionali.
Già rievocare il ruolo di avanguardia di Margara in quella stagione permette di cogliere la complessità della sua figura: un magistrato di sorveglianza che ha saputo dare senso innovativo a questo istituto, un riformatore che, forte del suo sguardo sensibile alla quotidianità del carcere e alle persone ivi rinchiuse, ha preso parola sui principi cardine del diritto penale e sui temi correlati più scottanti nel dibattito politico, con la sapienza del fine giurista: dalla questione della legittimità dell’ergastolo e delle norme di detenzione “speciale” come il 41bis, allo spazio da riservare alle alternative alla detenzione nel sistema complessivo delle pene.
Questi nodi sono ancora sul tappeto, anzi ci aspettano due scadenze decisive, l’una riguardo la sorte dell’ergastolo ostativo, l’altra delle Residenze per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza (Rems) nel nuovo sistema di presa in carico dei “folli rei”. Per le Rems, di cui si attende l’esito del pronunciamento della Corte Costituzionale, l’alternativa è fra il mantenimento del valore terapeutico di questi presidi, o il ritorno alla logica custodiale dell’Ospedale Psichiatrico Giudiziario. Perciò, richiamare oggi l’attenzione sulla figura di Sandro Margara è una felice coincidenza e insieme uno stimolo nella giusta direzione.
Anche sul rifiuto dell’Opg, Margara ha precorso i tempi. Scriveva su Fuoriluogo nel 2010: questa “ditta di pessima fama” (così definiva ironico l’Opg) si regge sui presupposti della “incurabilità e sostanziale perpetuità della malattia mentale” e sulla (conseguente) “condizione detentiva assolutamente priva di possibilità terapeutiche, con strutture e personali carcerari”, oltre che “sull’esistenza della pericolosità sociale” (quale corollario della malattia mentale). “Questo sistema è crollato sui primi due punti..e resta scalfitto anche il terzo”, concludeva.
Quanto all’ergastolo, dopo che la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità dell’ergastolo ostativo, il Parlamento ha ancora alcuni mesi di tempo per modificare la normativa. Nel frattempo, il dibattito politico infuria fra chi vede in questo frangente l’occasione per ripensare la legittimità stessa dell’ergastolo, quella “pena di morte nascosta” evocata da Papa Francesco nell’enciclica “Tutti fratelli”; e chi, in nome dell’utilitarismo estremo, rivendica la pena perpetua senza possibilità di scampo per i grandi criminali, quale strumento chiave nella lotta alle mafie. Senonché, proprio sul trattamento dei “grandi scellerati” si misura la pregnanza del dettato costituzionale e la tenuta dell’aggancio alla persona, nel rispetto della sua dignità e umanità. Questi capisaldi etici del viver civile, proprio in quanto tali valgono per tutti e tutte, su questo Margara è stato limpido e inflessibile. Per questo ha criticato senza sconti l’introduzione di norme sempre più stringenti di perpetuità della pena, appellandosi ai diritti del condannato a un “trattamento umano” e al reinserimento nella comunità: garanzie di civiltà, ambedue costituzionalmente sancite, ambedue in conflitto col “fine pena mai”.