Una sventurata iniziativa del Governo rischia di riportare indietro le lancette dell’orologio su un tema delicato: quello del trattamento dell’autore di reato dichiarato non imputabile. Si tratta di colui il quale ha commesso un crimine senza la pienezza della capacità di intendere e di volere e che, pertanto, secondo il nostro codice penale, merita di essere curato prima di essere punito.
Ora, la legge 81 del 2014, che finalmente abolì la micidiale istituzione totale dell’ospedale psichiatrico giudiziario, ebbe anche il merito di stabilire numerosi e validi principi per far fronte alle esigenze di ciascuna di queste persone. I principi cardine di quell’intervento legislativo si riassumono in quanto segue: la cura e la riabilitazione vanno effettuate mantenendo il più possibile il contatto con il territorio di appartenenza e i legami sociali di provenienza; il trattamento è garantito dai servizi di salute mentale sul territorio; solo in estremi casi la persona autrice del crimine è ricoverata in una Residenza per le misure di sicurezza (Rems), così da poterne contenere anche la carica di pericolosità sociale residua, connessa con il disturbo che vive; infine, vi è un massimo di durata dell’esecuzione della misura detentiva, dato il presupposto che il prolungare le esperienze di costrizione non giova mai alla riabilitazione.
Ispirata a queste linee di sviluppo e costantemente accompagnata dalla giurisprudenza costituzionale che l’ha via via difesa da ordinanze che ne hanno posto in dubbio funzionamento e legittimità, ora la legge rischia di subire un attacco mortale, paradossalmente per mano del Governo. Nell’art. 32 di un decreto-legge dedicato a ben altri temi, come un cavallo di Troia disomogeneo rispetto al resto del provvedimento, si staglia l’intento di istituire una nuova Residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza in Liguria, di natura sperimentale, che possa ospitare i pazienti in attesa di trovare posto in esecuzione delle misure di sicurezza. Ma in cosa consisterebbe questa natura sperimentale? Nell’aprire una breccia, anzi una voragine, nei principi della legge entrata in vigore otto anni fa. I ricoverati potranno essere accolti al di fuori del bacino territoriale di origine, decontestualizzandoli dunque dalle proprie radici, dai rapporti con persone e luoghi. Si tratta di una scelta regressiva e non sufficientemente meditata. Giunge in un momento, peraltro, in cui la Corte costituzionale ha rischiarato l’orizzonte, con una sentenza esemplare (Corte costituzionale, sent. n. 22 del 2022). I giudici costituzionali hanno (di)mostrato quanto duraturo sia il mito ottundente secondo il quale servono più posti letto, e più luoghi di residenza coattiva. La richiesta di più spazio di contenimento per le persone che soffrono non è la via corretta, anche perchè le Rems devono fronteggiare la parte dura e acuta del disturbo, ma soltanto a condizione di non ridursi a monadi nè di farsi contenitori generalizzati di grande capienza come erano gli Opg. La via dello sviluppo invece è l’altra: potenziare i dipartimenti di salute mentale, aumentarne la capacità d’integrazione e l’efficacia di prestazione sui territori, l’effettività della cura e la forza della riabilitazione diversificata, basata sulle esigenze delle persone e delle loro storie.
Porsi la domanda giusta è, come di frequente, la chiave per far avanzare il progresso e non tornare verso il buio. Quindi non dove li mettiamo? ma di cosa ha bisogno ciascuno, per stare meglio? Se il Governo trovasse la forza di invertire i termini dei due quesiti, vedrebbe, quasi cogliendo la panoramica di quel che accade grazie all’operato di tanti magistrati, che non è con l’aumento dell’offerta di restrizione che si orienta il sistema lungo il sentiero tracciato dalla Costituzione.
Il tempo è poco, ma si deve lottare.