Ha avuto una certa risonanza mediatica un recente articolo sulla cannabis medica apparso nella rivista JAMA (Gedin et al, Journal of American Medical Association). Si tratta di una cosiddetta revisione sistematica e meta-analisi sulla “Risposta al placebo e attenzione dei media negli studi clinici randomizzati che valutano le terapie a base di cannabis per il dolore”. Lo studio suggerisce che la cannabis non è migliore nell’alleviare il dolore di un placebo.
La ricerca di Gedin su cannabis e placebo
Per condurre la ricerca sono stati esaminati i risultati di studi controllati randomizzati in cui la cannabis è stata confrontata con un placebo per il trattamento del dolore clinico. Sono stati inclusi studi che hanno confrontato il cambiamento nell’intensità del dolore prima e dopo il trattamento. In totale, sono stati esaminati 20 studi che hanno coinvolto complessivamente quasi 1.500 persone.
La meta-analisi ha mostrato che il dolore è stato valutato come significativamente meno intenso dopo il trattamento con un placebo, con un effetto da moderato a ampio a seconda di ogni persona. Inoltre non sono stati osservate differenze significative tra la cannabis e un placebo per ridurre il dolore.
Il lavoro ha anche esaminato il modo in cui gli studi sono stati coperti dai media e dalle riviste accademiche per vedere se fosse correlato all’effetto terapeutico riportato dai partecipanti. La copertura è stata classificata come positiva, negativa o neutra a seconda di come si presentavano i risultati riguardanti l’efficacia della cannabis nel trattamento del dolore. La stragrande maggioranza degli articoli ha riferito che la cannabis ha avuto un effetto positivo nel trattamento del dolore. Ciò significa che la copertura mediatica nei confronti della cannabis tende ad essere positiva, “indipendentemente da quali fossero effettivamente i risultati di uno studio”, come scrivono gli autori.
Si possono fare varie considerazioni a riguardo di questo studio.
La cannabis, il placebo e la scala del dolore
Innanzitutto, a detta degli autori, i risultati confermano quelli di una metanalisi (Fisher et al, Pain) del 2021, nella quale peraltro erano state dimostrate prove di beneficio della cannabis sul dolore a breve termine (<7 giorni) e dello spray a base di cannabis nabiximols (commercialmente Sativex) a >7 giorni. Non vengono prese in considerazioni altre meta-analisi sul tema, come quella pubblicata sull’autorevole British Medical Journal nel 2021, che conclude che “prove di certezza da moderata ad alta mostrano che la cannabis medica o i cannabinoidi non inalati comportano un miglioramento da piccolo a molto piccolo nel sollievo dal dolore, nel funzionamento fisico e nella qualità del sonno tra i pazienti con dolore cronico… rispetto al placebo. [corsivo del redattore]” (Li Wang et al). Una ulteriore meta-analisi pubblicata recentemente (Bilbao et Spanagel, BMC, 2022) conclude che i cannabinoidi (puri, non la cannabis nella sua complessità, non considerata nello studio) sono terapie efficaci per varie indicazioni mediche, tra le quali il dolore.
Nello studio che stiamo esaminando, inoltre, l’effetto della cannabis è comunque superiore al placebo, anche se non raggiunge nella loro analisi la significatività statistica.
Ancora, gli autori riportano che la meta-analisi includeva solo prove che misuravano l’intensità del dolore con una scala di autovalutazione (scala visiva o numerica). Si tratta della famosa “scala del dolore”, nella quale il paziente deve riferire qual è l’entità del suo dolore in una scala da zero (nessun dolore) a dieci (il massimo dolore concepibile). In mancanza di un “termometro del dolore” questa scala ha una sua utilità, ma ovviamente anche importanti limitazioni. Come sanno tutti coloro che si occupano di terapia antalgica, il dolore, specie quando diventa cronico, è sempre una esperienza multidimensionale. La sofferenza, nel senso più ampio, del malato non è facilmente quantificabile. Un conto è misurare la pressione arteriosa massima e trovare che è 160 mmHg mentre scende a 120 dopo un antipertensivo, o un livello di colesterolo nel sangue di 250 che si abbassa a 190 con una “statina”. Il dolore, quando diventa malattia, comporta tutta una serie di “disturbi”, e la cannabis, anche se di per sé può non sempre essere un antidolorifico potente, è in grado di agire migliorando il sonno, la funzionalità, riducendo la nausea, l’ansia, la depressione: migliorando insomma la Qualità della Vita, come dimostrato da un’ampia serie di studi. Per tali motivi molti pazienti apprezzano la cannabis, che permette tra l’altro di ridurre se non eliminare molti farmaci, gravati questi da effetti collaterali, anche pesanti.
La rilevanza degli studi randomizzati con placebo
Dobbiamo inoltre considerare che lo studio di Gedin è una meta-analisi di studi randomizzati controllati con placebo (RCT). La percezione che gli RCT siano necessari prima che qualsiasi conclusione sull’efficacia possa essere dimostrata è un malinteso comune sulla natura delle prove mediche. Sebbene sia necessario prestare attenzione quando si confrontano le risposte cliniche senza confronti diretti (a causa delle differenze nel disegno dello studio, nella popolazione e così via), Sir Michael Rawlins, l’ex capo del britannico NICE (Istituto Nazionale per la Salute), ha sottolineato nel 2008 che gli RCT non sono l’apice delle sperimentazioni terapeutiche:
“Gli studi controllati randomizzati, a lungo considerati il “gold standard” delle prove, sono stati messi su un piedistallo immeritato. La loro comparsa al vertice delle “gerarchie” di prove è inopportuna; e le gerarchie, esse stesse, sono strumenti illusori per valutare le prove. Dovrebbero essere sostituiti da una varietà di approcci che implichino l’analisi della totalità della base di prove”.
Gli studi controllati randomizzati vengono condotti in gruppi di pazienti strettamente selezionati che di solito non sono rappresentativi del paziente medio: quest’ultimo spesso presenta più comorbidità mediche e per questo gli vengono prescritti anche altri farmaci. Gli RCT misurano l’”efficacy”, ma non l’”effectiveness”. Efficacy è dunque l’efficacia di un intervento sanitario che raggiunge un certo obiettivo o produce l’effetto che si desidera in condizioni sperimentali; effectiveness è il risultato che lo stesso intervento produce effettivamente, concretamente, in condizioni di normale attività.
Gli studi controllati randomizzati richiedono tempo e spesso hanno costi proibitivi e, con i nuovi farmaci, sono in gran parte condotti da aziende farmaceutiche a scopo di lucro. Pochissime delle condizioni che rispondono alla cannabis riportate dai pazienti sono attualmente studiate utilizzando RCT. Le ragioni di ciò includono le difficoltà nel brevettare gli estratti di piante intere dato il loro uso storico e la complessa miscela di cannabinoidi, terpeni e flavonoidi.
Per questi e altri motivi si possono trarre maggiori evidenze riguardanti la cannabis medica dalle cosiddette “real world experience” (RWE), cioè prove dal mondo reale. Si tratta di tutti quegli studi basati su casistiche più o meno ampie, ma che talora contano diverse migliaia di pazienti. Le prove del mondo reale comprendono tutte le forme di dati clinici raccolti su pazienti al di fuori del tradizionale ambiente RCT. Lungi dall’essere il “parente povero” degli RCT, le RWE possono essere particolarmente preziose per la ricerca di nuove applicazioni per farmaci approvati esistenti, o per costruire un corpus di ricerca su prodotti, come la cannabis medica, che non si prestano naturalmente al tradizionale modello di ricerca (Schlag et al. 2022). Studi di questo tipo ormai abbondano, e sono concordi nei risultati. Ricordiamo solo come esempio uno studio pubblicato nei giorni scorsi (Vickery et al, 2022) sull’autorevole PlosOne, condotto su quasi quattromila pazienti australiani, con dimostrazione dell’efficacia anche su lungo periodo (due anni) per quanto riguarda dolore, depressione, ansia, insonnia, stress, benessere emotivo, funzione fisica e “impressione clinica globale”.
La questione placebo
Un’altra considerazione riguarda il placebo. E’ ben noto che il solo fatto di sottoporsi a una forma qualunque di terapia giova ai pazienti. Il placebo è una sostanza priva di principi attivi specifici, ma che viene somministrata come se avesse veramente proprietà terapeutiche. Lo stato di salute del paziente che ha accesso a tale trattamento può migliorare, a condizione che il paziente riponga fiducia in tale sostanza o terapia.
Non si tratta di semplice suggestione: la fiducia nella terapia provoca reazioni nel sistema nervoso centrale. Il cervello, detta in termini molto semplificatori, comincia a produrre sostanze antidolorifiche. Le prime accertate dalla ricerca sono state le endorfine. Successivamente è stato dimostrato che anche gli endocannabinoidi – le sostanze autoprodotte che si interfacciano agli stessi recettori della cannabis – partecipano attivamente all’effetto placebo. Se cioè si somministra a un paziente un placebo, nel suo cervello aumentano gli endocannabinoidi e il malato si sente meglio. Se però allo stesso paziente viene somministrata contemporaneamente una sostanza che blocca gli endocannabinoidi (quindi un antagonista di questi), l’effetto placebo non si ha più (come dimostrato da autori italiani, Benedetti et al, 2011). L’effetto placebo, una volta considerato solo come qualcosa che “sporcava” la ricerca, oggi viene attivamente studiato perché “imbrigliarlo” potrebbe aiutare la cura senza dover dare farmaci. Quindi lo studio di Gedin forse ci dice di più sul placebo che non sulla cannabis.
Brevi conclusioni
L’articolo riporta anche che “l’attenzione positiva dei media sui cannabinoidi per alleviare il dolore potrebbe in parte spiegare le risposte al placebo osservate in questa revisione sistematica.” Dal punto di vista di medici e pazienti che per decenni hanno dovuto combattere contro pregiudizi e criminalizzazioni di un farmaco, in realtà finalmente un’attenzione positiva è solo che auspicabile.
Viceversa, un po’ stupiti dalla rapida risonanza mediatica di questo articolo, al contrario di tanti articoli positivi sul ruolo terapeutico della cannabis, possiamo concludendo affermare: ben vengano gli studi sul valore terapeutico della cannabis. Ad essere sinceri, però, non ci ricordiamo di studi simili fatti su farmaci “normali”.
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