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La produzione di oppio in Afghanistan non è mai stata così alta. Si stima che nel paese, nella stagione 2005-2006 siano stati coltivati a papavero da oppio 165.000 ettari di terreno, con un aumento del 59% rispetto alla stagione precedente. A questo fenomeno si risponde con la politica delle eradicazioni. Queste ultime nel 2005-2006 sono triplicate rispetto all’anno precedente, anche se hanno interessato meno del 10% del totale (circa 15.000 ettari). Allo stesso tempo va registrato il coinvolgimento nelle operazioni antidroga delle truppe Isaf, la forza multinazionale con mandato Onu sotto il comando della Nato, di cui l’Italia fa parte. Ne parliamo con l’europarlamentare Vittorio Agnoletto, esponente del movimento altermondialista.

Cosa pensi della strategia basata sulle eradicazioni forzate? Quale potrà essere l’impatto sulla popolazione?
La politica delle eradicazioni forzate fa sì che la presenza delle truppe occidentali venga sempre più vista con profonda diffidenza e/o avversione dalla popolazione afghana. A mio parere, l’unica possibilità di affrontare la questione della coltivazione di oppio è che le istituzioni internazionali si rendano disponibili ad acquistare tutta la produzione di oppio per destinarla alla produzione di morfina, e quindi per interventi di contenimento del dolore da realizzare in tutto il mondo, ma in particolare nell’emisfero Sud e in Africa, dove è assente qualunque terapia del dolore.
Anche da un punto di vista economico, qualora si dovesse acquistare dai contadini un chilo di oppio per cento dollari, cioè un prezzo che può essere concorrenziale o almeno equivalente a quello che viene offerto ai contadini dai narcotrafficanti, secondo quanto riferisce il direttore dell’Unodc Antonio Costa, e considerando che la produzione di oppio è stata di 6.100 tonnellate, il costo complessivo equivarrebbe a 610 milioni di dollari. Questo può sembrare un prezzo enorme, ma è invece inferiore all’ultima tranche di 700 milioni di dollari, approvata dal senato Usa, da destinare al dipartimento antinarcotici per combattere la massiccia produzione afghana di oppio. In secondo luogo, è evidente che questo costituirebbe un mezzo politico attraverso il quale le istituzioni internazionali potrebbero stabilire un rapporto positivo con i contadini afghani. Sarebbe un primo passo verso un progetto concordato di riconversione delle colture.

È la proposta avanzata dal Senlis Council e sostenuta anche da esponenti del governo italiano. Come sta andando avanti?
Il rappresentante speciale dell’Unione europea in Afghanistan, Francesc Vendrell, ha detto che questa proposta, pur essendo l’unica razionale, è «politicamente non corretta». Credo che uno degli obiettivi che ci dobbiamo porre in previsione della nuova conferenza mondiale dell’Onu sulle droghe prevista per il 2008 sia proprio quello di cambiare questa logica e far diventare “politicamente corretto” tutto ciò che può essere utile per migliorare la condizione di vita delle persone, e non ciò che si può trovare in sintonia con le ideologie oscurantiste e moraliste.
Certo, perchè una proposta del genere si realizzi, è necessario un cambiamento di rotta nell’atteggiamento culturale che negli ultimi anni ha caratterizzato l’agenzia Onu per la lotta alla droga con la gestione Arlacchi e poi Costa.

Presentando l’ultimo rapporto Unodc sulla produzione di oppio, lo scorso settembre, Costa ha chiesto l’utilizzo delle forze Nato nella guerra alla droga. Questo significa che vi sarà un coinvolgimento diretto dell’Isaf, di cui fa parte anche il contingente italiano, nella lotta alla droga? Come cambierà il ruolo delle forze armate, e con quali effetti?
L’aspetto più grave è che attualmente la presenza delle truppe Isaf e statunitense è sotto un comando unificato, quindi è scomparsa la tanto declamata autonomia e differenza di mandato tra la presenza europea ed italiana da un lato, e quella statunitense dall’altro. Il comando unificato è in mano anglo-statunitense e quindi tutte le truppe che sono in Afghanistan da questo momento partecipano ad una guerra totale e sempre più generalizzata, anche perché la presenza dei taleban si sta estendendo in tutte le province. In questo quadro, l’utilizzo di forze occidentali nei progetti di eradicazione le porta oggettivamente a contrapporsi sempre di più a fasce ampie di popolazione civile, non coinvolta finora nel conflitto. Perciò il risultato non potrà che essere un enorme autogol. Da una parte, come già detto, aumenterà l’avversità della popolazione verso le truppe occidentali e, dall’altra, nulla cambierà per quanto riguarda le coltivazioni. Queste, semplicemente, si sposteranno in qualche altra regione come avviene da sempre, in Afghanistan come in Colombia.

A proposito della Colombia. A tuo parere corriamo il rischio di trovarci di fronte a un “Plan Afghanistan” sulla falsa riga del “Plan Colombia”, con fumigazioni che mettono a repentaglio la vita delle comunità locali?
Senza dubbio ci sono delle fortissime similitudini. La prima è, per l’appunto, il fatto che si mette a rischio la vita delle comunità locali. La seconda è che è proprio la guerra a produrre un’impennata enorme nelle coltivazioni illegali: così è stato anche in Afghanistan col nuovo boom della coltivazione di oppio. È l’ennesima dimostrazione di come la guerra e le grandi campagne di eradicazione non risolvono assolutamente problemi che affondano le loro radici in complesse situazioni sociali.