Il comunicato del Comitato Nazionale per la Bioetica (Cnb) n. 2/2023, circa la risposta al quesito del governo sul caso Cospito, così sunteggia il parere di maggioranza: «Nel caso di imminente pericolo di vita, quando non si è in grado di accertare la volontà attuale del detenuto, il medico non è esonerato dal porre in essere tutti quegli interventi atti a salvargli la vita». A sostegno di tale tesi è posto un dictum della recente sentenza della Corte Europea dei Diritti Umani (Cedu), Yakovlyev c. Ucraina: «Né le autorità penitenziarie, né i medici potranno limitarsi a contemplare passivamente la morte del detenuto che digiuna».
Vale la pena ricontestualizzare il dictum della Corte nell’ambito della giurisprudenza in tema di alimentazione forzata in caso di sciopero del cibo (Gandhi stesso parla di ‘fasting’, rifiutando il termine ‘hunger strike’).
Il prolungato rifiuto del cibo in carcere pone in diretto contrasto i due principi cardine del sistema convenzionale di tutela dei diritti: il diritto alla vita (art. 2) e il divieto di tortura e trattamenti inumani e degradanti (art. 3). La Corte, infatti, ha osservato che quando un detenuto protrae uno sciopero dell’alimentazione, ciò può inevitabilmente portare a un conflitto tra il diritto all’integrità fisica dell’ individuo (art.3) e l’obbligo positivo di tutela dell’integrità e della vita, in capo allo stato contraente ai sensi dell’articolo 2.
Proprio nella decisione Yakovlyev, la Corte ricostruisce queste due dimensioni e la citazione utilizzata nella decisione di maggioranza fa riferimento all’imputabilità alle autorità pubbliche del deterioramento delle condizioni di salute di un detenuto, direttamente causato dal suo rifiuto di accettare l’alimentazione forzata. La Corte afferma che tale deterioramento non può essere automaticamente ritenuto imputabile alle autorità. Tuttavia, la Corte, «condividendo i principi espressi dall’Associazione Medica Mondiale», considera che l’amministrazione penitenziaria non possa essere totalmente esonerata dai propri obblighi positivi, «limitandosi a contemplare passivamente la morte del detenuto che digiuna». La Corte, qui, non si riferisce a interventi di alimentazione forzata, ma cita in maniera espressa gli obblighi di informazione continua e, in casi specifici, il dovere di accertare le reali ragioni della protesta del detenuto e «se tali ragioni non sono puramente capricciose ma, al contrario, denunciano una grave cattiva gestione medica, le autorità competenti devono dimostrare la dovuta diligenza avviando immediatamente le trattative con lo scioperante al fine di trovare un accordo adeguato, fatte salve, ovviamente, le restrizioni che le legittime esigenze di detenzione possono imporre». Nella sentenza Yakovlyev, la Corte EDU discute la pratica dell’alimentazione forzata, delle sue ragioni e delle modalità con cui è stata somministrata e conclude per la violazione dell’art. 3, considerando, fra l’altro, che «l’unica risposta allo sciopero della fame dei detenuti è stata l’alimentazione forzata. La Corte non può quindi escludere che, come sostenuto dal ricorrente, la sua alimentazione forzata fosse in realtà finalizzata a reprimere le proteste nel carcere di Zamkova».
Sembra dunque ribaltata la logica che viene posta a fondamento della posizione maggioritaria del Cnb, per cui le DAT sarebbero incongrue e dunque inapplicabili «ove siano subordinate all’ottenimento di beni o alla realizzazione di comportamenti altrui».
La Cedu ci ricorda come, al contrario, sia la stessa pratica dell’alimentazione forzata a essere convenzionalmente illegittima e a costituire una violazione dell’articolo 3 quando la reale finalità delle autorità non sia tanto «salvare la vita» alla persona detenuta, quanto reprimere una protesta attraverso una lesione grave dell’autodeterminazione come fondamento non solo della dignità umana, ma anche di un concetto ampio di salute.
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