Barcellona, 5/02/2009 – Martin Jelsma è un analista olandese specializzato in politiche internazionali sulle droghe. Lavora e scrive per il TransNational Institute (Tni) di Amsterdam ed è consulente del governo olandese su questi temi. Osservatore presso l’Assemblea generale dell’Onu a Vienna per la risoluzione in materia di droghe (Ungass), Jelsma è venuto a Barcellona per partecipare al primo Forum mondiale dei produttori di coltivazioni dichiarate illecite e ha spiegato quali sono a suo parere le possibilità di trovare un consenso mondiale sul linguaggio da usare nel documento politico di Vienna.
Qual è l’obiettivo del Tni?
L’obiettivo del Tni è studiare gli effetti delle politiche internazionali ed essere in continuo contatto con i legislatori nazionali. Facciamo rilevazioni sul campo e organizziamo tavole rotonde dove discutere queste politiche. Ad esempio, nel 1995 abbiamo iniziato a studiare l’effetto della “guerra alla droga”, il processo di democratizzazione e le fumigazioni aeree in Colombia. Abbiamo fatto incontrare varie comunità della regione andina per indagare e discutere queste politiche con i legislatori nazionali. Dall’Ungass del 1998 il Tni ha un ruolo fisso come analista delle politiche internazionali sulla droga e come osservatore durante le discussioni a Vienna. In questi giorni, ad esempio, sto assistendo alle discussioni informali, come osservatore del Tni e consulente del governo olandese.
In questo momento la parte sociale del lavoro del Tni si sta sviluppando nel sud-est asiatico. Organizziamo incontri chiusi, informali, non registrati, fra i vari attori per stimolare i soggetti di queste politiche a discutere più apertamente dei dilemmi su cui si devono confrontare.
Cosa hanno in comune i coltivatori di piante dichiarate illegali?
Hanno in comune il modo negativo in cui le attuali politiche antidroga basate sulle eradicazioni forzate incidono sulle loro coltivazioni. Ci sono anche delle differenze significative fra le delegazioni: sul tema della coca, con la valorizzazione della cultura indigena, la Bolivia ha sbloccato una situazione che andava avanti da molto tempo. Riguardo invece alla cannabis, ancora non si è visto un movimento altrettanto forte per la difesa degli usi locali da parte dei coltivatori. A livello nazionale si è visto qualcosa di simile in Giamaica, in alcuni stati dell’India o nel Riff del Marocco. Ma è qualcosa di molto diverso rispetto alla foglia di coca, che ha una lunga storia di rivendicazione dell’uso ancestrale. Per l’oppio il discorso è ancora più complicato: anche se in Afghanistan, Birmania e Laos esiste una lunga storia di uso tradizionale, la popolazione non lo reclama per paura di pene detentive molto severe.
Stiamo seguendo un progetto di eradicazione in una regione del Laos che ha la storia più antica d’uso dell’oppio: permettere la coltivazione ad uso personale per la comunità è stato un successo. In altre regioni dove l’oppio è stato eradicato completamente, abbiamo visto come una minoranza, che non riusciva ad abbandonarne il consumo, sia passata a droghe più pericolose quali l’oppio farmaceutico, che viene iniettato. Ciò crea nuovi problemi sanitari e sociali.
Come vanno le discussioni informali a Vienna?
Fino ad oggi le risoluzioni dell’Ungass si sono fondate sulla filosofia della “tolleranza zero”: nel 1961 ci si era proposti di eradicare completamente la coca in 25 anni e la cannabis in 15 anni, e non ha funzionato. Oggi stiamo valutando gli obbiettivi fissati dieci anni fa, e ancora una volta dobbiamo registrare un fallimento. Per questa ragione ci sono alcuni paesi che si stanno allontanando dalla filosofia della tolleranza zero. È qui che entra in gioco il principio della “riduzione del danno” come punto simbolico a Vienna. Alcuni paesi devono accettare il fatto che il tema della droga non può essere cancellato dalla faccia della terra; sarebbe meglio dirigere l’attenzione sugli effetti pericolosi di queste sostanze e sull’esistenza del mercato illegale. Bisognerebbe anche cercare di bilanciare gli effetti negativi della repressione e discutere quali siano le politiche migliori per affrontare i problemi. L’Europa è stata molto esplicita rispetto a questo tema, continuando a chiedere che si parli di “riduzione del danno” e chiedendo delle regole di valutazione dell’efficacia di queste politiche. È convinta che questa sia la lezione che abbiamo imparato negli ultimi dieci anni, e che dovrebbe essere presente nella risoluzione di Vienna.
Alcuni paesi hanno dichiarato esplicitamente che non accetteranno mai un documento con le parole “riduzione del danno”: gli Stati Uniti, la Russia e il Giappone. Altri paesi come il Messico, Cuba, l’Egitto e il Pakistan hanno opposto resistenza lasciando però uno spazio per il compromesso.
La Cina è avanti rispetto a questo tema: negli ultimi quattro anni sono stati aperti più di mille centri di somministrazione di metadone e scambio di siringhe.
Un altro aspetto centrale del dibattito è l’accesso ai farmaci essenziali, in quanto esiste una produzione ufficiale di farmaci ricavati da queste stesse piante. È un tema centrale per l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) che ha iniziato un progetto di accesso a questi farmaci su scala mondiale. L’Oms mantiene la lista dei farmaci essenziali, fra cui: morfina, codeina, efedrina, ketamina, metadone. Sono tutte sostanze controllate dalle Convenzioni sulle droghe. È un tema difficile da risolvere sul piano diplomatico, in parte per l’ignoranza di alcuni rappresentanti. Ed è anche un tema molto politico: dare il segnale che alcuni divieti dovrebbero essere levati, che alcuni usi dovrebbero essere tollerati o addirittura stimolati a scopo medico, è un tabù per un gruppo di paesi. Gli Stati Uniti, ad esempio, non vogliono che nella dichiarazione politica di Vienna ci sia alcun riferimento all’Oms perché la vedono troppo liberale sul tema della droga.
Un altro argomento di discussione, posto specialmente dal governo boliviano, riguarda i diritti delle popolazioni indigene e gli usi tradizionali delle piante, in particolare la coca. Abbiamo visto però con sorpresa che alcuni paesi si oppongono anche solo al menzionare l’Ungass del ’98, ove si tollerava l’uso tradizionale della coca da parte della popolazione indigena.
Chi si oppone a un linguaggio che faccia riferimento ai diritti umani nella risoluzione?
Le principali obiezioni vengono da Cina, Cuba, Egitto, Pakistan e Iran. Altri paesi come gli Usa, il Canada, il Brasile e l’Australia non hanno firmato la Dichiarazione dei diritti dei popoli indigeni, che sarebbe facilmente applicabile per la difesa degli usi tradizionali di alcune piante.
I trattati internazionali sui diritti umani sanciscono il diritto di ciascuna persona al benessere e a ricevere assistenza sanitaria anche se assume droghe. Questo diritto è stato contestato quasi esclusivamente dagli Usa, che non hanno firmato questa Dichiarazione. Poiché la risoluzione Ungass si raggiunge con il consenso di tutta l’assemblea, gran parte dei riferimenti al diritto alla salute e ai diritti degli indigeni verranno scartati. Allo stesso tempo, il Consiglio dei diritti umani ha scritto una lettera alla Commissione sulle droghe dell’Onu (Cnd) spiegando che il diritto alla salute è un diritto umano inalienabile e che i paesi sono tenuti a implementare misure di riduzione del danno.
Cosa si aspetta di vedere nella prossima Ungass?
Finora non c’è stata una apertura da parte dell’amministrazione Obama, che mantiene la stessa posizione dei governi precedenti. Se le cose dovessero andare avanti, così non mi aspetto sorprese nella risoluzione. Dal testo risulterà chiaramente che il cambiamento è maturo, perché con un livello così alto di polarizzazione a livello dell’Onu, è quasi impossibile che il sistema sopravviva.
Se ci dovesse essere un diverso atteggiamento da parte dei funzionari nord-americani, ciò si tradurrebbe in una presa di posizione decisamente più multilaterale e più rispettosa dei processi Onu. In questo caso si potrebbe compiere il semplice passo di collegare l’Ungass con il diritto alla Salute o ai diritti umani.
Come si potrebbe fare?
Una politica sulle droghe basata sulla salute, o una politica sulle droghe orientata allo sviluppo rispetto alle coltivazioni, ad esempio, significherebbero un grande cambiamento.