Questo articolo di Leonardo Fiorentini è stato originariamente pubblicato il 7 agosto 2022 su il Riformista.
La fine anticipata della legislatura ha interrotto la strada dei provvedimenti, dalla cittadinanza alla cannabis, che volevano portare al centro del dibattito parlamentare i diritti. A onore del vero si trattava di una strada molto in salita, se non addirittura sbarrata dai tempi e dai numeri del Senato. Al di là di questo, si trattava di questioni e istanze che viste da vicino possono sembrare lontane, ma che allargando lo sguardo rivelano tutta la loro interconnessione. La cannabis poi, svela tutto l’impatto pervasivo e intersezionale del proibizionismo, una pervasività tale da rendere la sua regolamentazione legale un tema urgente e prioritario per questa campagna elettorale. Provo a spiegare perché.
La cannabis è la sostanza illegale più usata. Più di un terzo della popolazione l’ha incontrata e usata nella vita. Dal 1990 più di un milione di persone è stato segnalato ai Prefetti per il suo uso. Oltre un decimo del corpo elettorale ne subisce ogni giorno la sistematica repressione e stigmatizzazione. Il proibizionismo impatta quindi sulla salute di almeno 6 milioni di concittadini, messa a rischio più dalle leggi, che impediscono di verificare cosa si usa, favoriscono marginalizzazione e stigma e ostacolano l’accesso ai servizi, che dalla pericolosità della sostanza stessa. Interessa indirettamente la salute di tutti, sia per i costi sanitari dell’incapacità di prevenire gli usi problematici che per l’ostracismo ancora diffuso alle azioni di riduzione del danno.
Chi usa cannabis in Italia viene costretto a entrare in contatto con le narcomafie, che oggi governano quel mercato. Paradossalmente si rischia meno a finanziare il crimine che a coltivarsela in casa. Non solo. A rischio è la sicurezza di tutti: le piazze di spaccio sono abbandonate alle organizzazioni criminali che le governano con il mezzo che gli è proprio, la violenza. Quando serve anche lo “Stato” viene infiltrato e corrotto, come purtroppo ci riportano le cronache quotidiane.
Il proibizionismo pesa sul bilancio pubblico che sperpera almeno un paio di miliardi di euro l’anno per svuotare il mare con il cucchiaino, senza alcun risultato su domanda e offerta delle droghe. E molti di più, almeno 6 miliardi, sono regalati esentasse alle casse delle narcomafie. Il nostro sistema economico è drogato dal fiume di denaro riciclato dalle mafie. Aziende che vivono solo per “lavare” il denaro proveniente dal narcotraffico, concorrono slealmente con l’imprenditoria sana del paese. Proprio quel tessuto imprenditoriale sempre vezzeggiato dalla retorica politica, mai protetto dal dumping finanziario reso possibile dal riciclaggio.
È anche una questione di genere, per come la violenza dell’illegalità e della repressione colpisce globalmente le donne (nel latinoamerica la detenzione femminile è rappresentata per l’80% da violazioni sulle droghe) e per come queste ovunque siano oggetto di particolare stigma per l’uso di sostanze.
La proibizione è devastante per il sistema della giustizia e delle carceri: non ci sarebbe alcun sovraffollamento carcerario senza detenuti per semplice spaccio o senza detenuti che usano sostanze. Nei tribunali ci sono oltre 240.000 fascicoli pendenti per droghe, quasi la metà – si stima – per cannabis.
A causa della tenaglia di due leggi criminogene come la Jervolino-Vassalli e la Bossi-Fini i migranti vivono sotto il ricatto della tratta da una parte e della repressione dall’altra. Così il 34% degli stranieri è in carcere per reati di droga, un dato che ha fatto segnalare l’Italia nell’ultimo report del gruppo di lavoro dell’ONU sulle detenzioni arbitrarie. La proibizione riguarda chi arriva qui, attraverso tratte che sono integrate, finanziariamente e strutturalmente, con il traffico di droghe. Riguarda anche le seconde generazioni. Non c’era bisogno dei casi di Babayoko e Blair per scoprire come il profiling faccia in modo che sia nell’esperienza comune degli italiani senza cittadinanza l’essere fermati anche due volte in un giorno dalle forze dell’ordine. Succede in qualsiasi città italiana, senza particolare motivo, se non il fatto di essere di carnagione diversa. Attenzione. Questo legame fra profiling, leggi criminogene e sistema repressivo è letale: non c’è bisogno di mandato per perquisire in caso di sospetto di possesso di droghe; basta la detenzione – ricordiamolo, quasi un italiano su sei usa droghe – per rischiare patente e passaporto; è sufficiente una quantità un po’ superiore al minimo e magari non essere un maschio bianco benestante, per andare davanti ad un giudice; con l’inversione di fatto dell’onere della prova basta qualche contante, un rotolo di pellicola trasparente e una bilancia da cucina per essere condannati. Così mentre il rapporto processi-condannati per i reati contro la persona o le cose è di 10 a 1, quando va bene 2, quelli per droghe trovano ogni 10 processi ben 7 condannati.
È innegabile che sia proprio la cannabis al centro di questo sistema repressivo, che usa le leggi sulle droghe per marginalizzare e colpire le giovani generazioni e le minoranze, in Italia come in tutto il mondo. La retorica proibizionista non lo dice: il vero obiettivo del divieto non è limitare i consumi di droghe, cosa peraltro che gli riesce malissimo, ma avere uno strumento di controllo penale e di stigma sociale. Ed in questo, è invece efficacissimo. Per questo va sradicato.
Ecco, lo stigma, ben conosciuto dalla comunità LGBTQ+. Il tabù della droga è riuscito a impregnare così in profondità il tessuto della società civile italiana, che ancor oggi chi la usa, quando non è un “tossico”, è un disadattato. Nella percezione comune, tre ragazzi che si ubriacano alla festa del patrono del paese, hanno alzato un po’ troppo il gomito e lo raccontano divertiti il giorno dopo al bar. Gli altri tre, che si fumano una canna sulla panchina del giardino, sono tre giovani da salvare dall’autodistruzione. Nel discorso mainstream non è contemplato che una persona perfettamente inserita socialmente, stimata e con un lavoro stabile, consumi cannabis senza averne particolari problemi. Come accade con il caffè alla mattina o la birra con gli amici la sera. Eppure, è quello che succede nella stragrande maggioranza dei casi. La distinzione fra sostanze illegali e legali, che è figlia solo della legge penale, fa perdere il lume della ragione e della comprensione dei fenomeni.
Se è stato un errore nel passato non riuscire ad avere una visione ampia, relegando la questione antiproibizionista al mero interesse diretto di chi usa sostanze, oggi non si può far finta di vedere come le politiche sulle droghe interessino i diritti umani a tutto tondo. I diritti di tutti, che non sono alternativi ma complementari. L’uno integra l’altro, nessuno limita gli altri. La battaglia dell’uno dev’essere quella dell’altro, mentre le risposte della politica non devono dividere, ma unire.
Per fortuna qualcosa sta cambiando. Lo abbiamo visto con la campagna sul referendum cannabis: oggi abbiamo una forte maggioranza di cittadini consapevoli che non si può andare avanti così. Sono tanti e sono soprattutto giovani. Forze politiche che non abdicano al proprio ruolo devono sapere dare loro risposte, chiare ed urgenti. A partire dalla regolamentazione legale della cannabis.