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Nati in Spagna fra le pieghe della legge, presenti in forme ai limiti della legalità in altri paesi europei come il Belgio, i Cannabis Social Club sono stati per la prima volta istituzionalizzati in Uruguay con la legalizzazione della cannabis nel 2013. A parte distorsioni dovute proprio alla mancanza di una precisa regolamentazione, come dimostrano gli studi di Forum Droghe sull’autoregolazione nel consumo di cannabis, i club rappresentano un modello molto interessante perché, escludendo il profitto, delineano un modello che anche nella distribuzione predilige il controllo sociale e permette il passaggio delle competenze fra utilizzatori più e meno esperti.

In particolare, i risultati della ricerca condotta nel 2019 nell’ambito del progetto europeo NAHRPP e riassunti nel report a cura di Susanna Ronconi, confermano “un ruolo indubbiamente positivo e incisivo dei club” come setting sociale capace di sostenere e sviluppare le capacità della persona di controllare il proprio rapporto con la cannabis. Non solo permettono trasparenza e stabilità nell’approvvigionamento di una sostanza “buona e controllata” ma anche adatta, per gli effetti desiderati, agli obiettivi individuali d’uso. Questo è un importante fattore di sostegno concreto al controllo, soprattutto se contrapposto all’indeterminatezza e al rischio, anche legale, collegato al procurarsi la sostanza per strada nel mercato nero.  A questo si aggiunge un effetto psicologico positivo: “trasparenza, stabilità, un setting sociale positivo, una cultura condivisa sono tutti fattori che facilitano una dimensione di benessere, lontana da stress e ansia.” La ricerca qualitativa ha poi evidenziato come i Club siano anche “setting in cui si crea e si sviluppa una “cultura della cannabis”, potenziando sia i processi di apprendimento sociale (conoscere la sostanza, divenire esperti dei diversi metodi di assunzione, conoscere le proprie personali reazioni agli effetti) che norme e rituali sociali informali.” Si reintroduce così nella pratica quotidiana “ciò che la proibizione ha espulso nel campo delle droghe illegali: una cultura sociale condivisa dell’uso funzionale e modelli normalizzati e controllati di consumo.” La cultura della pianta fa di questi luoghi anche un “presidio” di informazione contro l’uso di cannabinoidi sintetici, caratterizzati da livelli di rischio e danno potenziale molto più alti, facilmente accessibili attraverso il dark web e il cui uso – grazie al proibizionismo sulla pianta – è purtroppo in ascesa fra i più giovani anche in Italia.

I Cannabis Social Club quindi proprio perché “aggregazioni sociali” rappresentano “un tessuto relazionale facilitante il social learning e i processi di de-stigmatizzazione, che rafforzano le capacità autoregolative dei singoli e l’affermarsi di un contesto sociale favorevole al consumo controllato” e di contenimento dei potenziali comportamenti a rischio.

Lo studio su fuoriluogo.it/nahrpp

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