La Commissione on Narcotic Drugs (CND) “Incoraggia gli Stati membri a esplorare approcci innovativi (…) per affrontare più efficacemente le minacce alla salute pubblica e individuale poste dall’uso non medico e non scientifico di droghe, in particolare l’overdose (…), rafforzando i sistemi di assistenza sanitaria (…) e misure di riduzione del danno volte a prevenire e ridurre al minimo le conseguenze negative per la salute pubblica e la società”.
Così recita la Risoluzione approvata dalla 67° CND tenutasi a Vienna dal 18 al 22 marzo. Una vera e propria svolta nelle politiche globali Onu sulle droghe, paralizzate da 60 anni di war on drugs e inchiodate al diritto di veto di una parte dei 53 stati che ne fanno parte. È un evento doppiamente importante. Sul piano delle politiche, innanzitutto: per la prima volta il termine ‘riduzione del danno’ (RDD) entra in una risoluzione della CND, e conquista un ruolo strategico, dopo anni di duro conflitto e mentre da tempo già ricorre nei documenti di tante agenzie Onu, questione posta da molti stati (a cominciare da quelli della UE) e dalla società civile. È una vittoria del fronte riformatore, quello che preme per decriminalizzare, per spostare l’asse delle politiche verso salute e diritti e ridimensionare il controllo penale e proibizionista, per sperimentare politiche alternative. Si rompe un tabù, e paradossalmente grazie non solo ai paesi da sempre riformatori, ma anche – e molto – agli USA, tra i più forti sostenitori della risoluzione. Con un viraggio a 180 gradi: gli Usa sono sempre stati il ‘gendarme’ delle Convenzioni, alla CND del 2009, quando già si era proposta l’introduzione della RDD, avevano posto il veto, scontrandosi tra l’altro con la UE (tranne l’Italia di Giovanardi, che aveva rotto il fronte europeo), e imposto il ritiro della risoluzione innovatrice. Oggi, dopo 15 anni e 650mila morti per overdose in dieci anni dovuti molto all’assenza di interventi di RDD, l’inversione di rotta. E veniamo alla seconda svolta, quella che sebbene procedurale, è in realtà politica: il rappresentante Usa a Vienna, Howard Solomon, riferendosi al veto posto da Russia e Cina sulla RDD, ha dichiarato come non sia accettabile che una risoluzione destinata a migliorare le politiche per la salute pubblica, appoggiata da tanti stati, sia ostaggio del veto di pochi. Una rottura drastica con il passato, una posizione che ha rotto il cosiddetto ‘spirito (o consenso) di Vienna’, che da oltre 60 anni impone di adottare solo risoluzioni approvate all’unanimità, impedendo così ogni movimento riformatore e svuotando le proposte più avanzate attraverso estenuanti riscritture e negoziazioni. Questa volta, invece, si è votato: 38 dei 53 paesi membri della CND hanno approvato, pochi si sono astenuti, e solo due, Russia e Cina si sono opposti. Certo, avrà anche giocato lo scenario internazionale, e il fatto che rompere con la Russia, quest’anno, non dev’essere apparso a molti, e agli Usa in primis, un grave problema. In ogni caso, da oggi le Risoluzioni si possono votare a maggioranza, il potere di veto risulta indebolito, il confitto in sede CND, già da anni evidente, può esprimersi anche a livello decisionale. Sulla RDD, con questa risoluzione la CND smette di essere la foglia di fico dietro cui per decenni i fautori della war on drugs si sono nascosti, per negare l’efficacia di questa politica e la sua portata strategica: questo riguarda da vicino anche l’Italia, che è tra i favorevoli alla Risoluzione, correttamente avendo scelto, al contrario del 2009, di stare nel fronte europeo, come tutti gli stati membri della UE. Una scelta apprezzabile, che dovrebbe ora trovare una traduzione concreta nella politica nazionale.
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