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Il Coordinamento Nazionale Comunità di Accoglienza (CNCA) ha espresso forte preoccupazione per il decreto cosiddetto “svuotacarceri”. Lo abbiamo fatto con un documento, sia per l’impostazione del provvedimento, sia per alcuni punti specifici contenuti nel testo.

Il CNCA ha esperienza diretta di cosa significhi accogliere persone in misura alternativa alla detenzione: nell’ultima rilevazione quasi 400 persone erano ospitate a questo titolo nelle comunità terapeutiche residenziali della rete.

La strada maestra per affrontare il problema del sovraffollamento in carcere è quella di ridurre gli ingressi nelle strutture detentive e limitarne i tempi. Un risultato che si raggiunge con una decisa azione di depenalizzazione e di ricorso esteso alle misure alternative alla detenzione. Non è più tollerabile che tensioni e problemi sociali vengano affrontati creando nuovi reati, aumentando le pene e limitando il ricorso alle misure alternative, come anche questo governo sta facendo fin dalla sua costituzione.

Allarma l’art. 8 del decreto, in cui è prevista l’istituzione presso il ministero della Giustizia di un elenco delle strutture residenziali idonee all’accoglienza e al reinserimento sociale delle persone detenute adulte. Queste strutture dovrebbero garantire servizi di assistenza, di riqualificazione professionale e reinserimento socio-lavorativo dei soggetti residenti, compresi quelli con problematiche derivanti da dipendenza o disagio psichico. Ci domandiamo a quali tipologie di strutture si stia facendo riferimento. Per le persone con problematiche di dipendenza o di salute mentale sono previsti, infatti, servizi specifici nella rete del Sistema sanitario nazionale pubblico, e quando questi servizi sono offerti da “comunità” a gestione privata sono previsti processi di accreditamento delle stesse che prevedono requisiti strutturali e di personale dettati da normative regionali. È a queste comunità che il decreto si riferisce o si vogliono creare nuove strutture, fuori dal sistema attuale di accreditamento, riservate solo a persone inserite nel circuito penale e con un numero di ospiti ben superiore a quello delle strutture oggi esistenti? Sarebbero delle micro carceri private per le persone “tossicodipendenti” e/o con problemi psichiatrici: una soluzione inaccettabile.

Una soluzione che non affronta poi i principali problemi per l’accesso in comunità dal carcere: le lungaggini burocratiche derivanti dalle difficoltà di funzionamento degli organi della giustizia e la mancanza di fondi. Andrebbero semplificate e velocizzate le procedure (i tempi di attesa per una camera di consiglio possono arrivare a 12 mesi) e andrebbe consentito l’ingresso anche per coloro che sono in attesa di giudizio. In alcune zone del paese poi, le comunità si trovano con capacità di intervento non sfruttate per le limitazioni degli invii da parte del sistema sanitario regionale, che non ha fondi per coprire le rette. Sarebbe opportuno sostenere anche altre soluzioni come le diverse forme di housing sociale che numerose organizzazioni del CNCA stanno sperimentando in tutta Italia.

È infine paradigmatico come il decreto Nordio preveda un aumento degli agenti penitenziari ma non stabilisca nulla per l’endemica mancanza di personale dedicato alle aree educative trattamentali degli istituti di pena. Così, sempre più spesso, le persone ristrette arrivano a fine pena senza che sia stata redatta la Relazione necessaria per la richiesta al magistrato di sorveglianza delle misure di esecuzione penale esterna. Piuttosto che cercare scorciatoie, spesso senza fondi, si deve quindi investire urgentemente su queste professionalità e rendere efficaci le procedure ordinarie per garantire che le carceri e la pena siano realmente rispettose dei principi costituzionali.

Il documento integrale su Fuoriluogo.it

[Foto: Governo.it]

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