Alcuni anni fa ho pubblicato nel volume Upperground per le edizioni manifestolibri un lungo intervento in chiave antiproibizionista elaborato a partire dall’esperienza pilota di legalizzazione della coop. Bravetta 80 di cui sono stata socio fondatore. Alla luce di quell’esperienza credo sia necessario passare dalla assurda «guerra alla droga» alla concreta «guerra al proibizionismo». E perdonatemi la parola guerra, che pure nel contesto mi sembra insostituibile. Questo tema potrebbe far parte del cambiamento di direzione del modello di sviluppo, cambiamento necessario non solo «per uscire dalla crisi» come detto nel programma di Sbilanciamoci, che pure in gran parte condivido, ma molto di più. Marx diceva «il capitalismo è la crisi», parafrasandolo, nei termini del nostro discorso potremmo dire: «il proibizionismo è la droga». Resistenze? Enormi. Ma non ci sono anche per tutti gli altri temi di qualsiasi progetto «sbilanciato» e fuori dal coro?
«Guerra al proibizionismo» non solo perché credo di qualche interesse riproporre l’argomento droga (di cui non si parla quasi più) per la sua rilevanza sociale, politica ed economica in generale, ma anche perché la rilevanza economica delle politiche repressive è sempre stata messa in ombra dagli altri aspetti del problema. Voglio mettere da parte per una volta le considerazioni relative ai costi umani del proibizionismo, a cominciare dalle collusioni sempre più strette tra «grande criminalità organizzata e potere politico-economico-militare-simbolico-mediatico, per evidenziare qui solo il danno economico legato a tutte le attività repressive necessarie al proibizionismo.
Parliamo di attività legislative, polizie, carceri, dogane, spese militari, spese sanitarie e assistenziali, istituzioni nazionali e internazionali costruite intorno alla guerra alla droga, commissioni, comitati, osservatori, convegni, ecc… E, prima di perderci nell’universo infinito, non ultime le proliferanti strutture di «recupero» pubbliche e private, ma comunque per lo più finanziate dal pubblico. Un impegno economico che si traduce in un enorme danno per le nostre risorse. Risorse che potrebbero essere indirizzate verso un più umano altrove.
In un interessante articolo apparso sul manifesto (2/9/09) di Marco Rossi della Sapienza di Roma ho letto che secondo autorevoli economisti: «In Italia il costo del proibizionismo ammonterebbe, nel periodo 2000- 2005 a circa 60 miliardi di euro, in media 10 miliardi l’anno». Una piccola finanziaria. Queste cifre si riferiscono, sempre per gli stessi economisti, anche alla mancata tassazione di tutte le sostanze in vendita al nero, che la legalizzazione potrebbe recuperare. Per inciso, di legalizzazione si è parlato anche sull’Economist di aprile. E vogliamo ricordare la rilevanza del mercato nero dell’oppio per la guerra in Afghanistan?
Penso che questo tema potrebbe costituire il «sesto punto» per trovare le risorse necessarie alla realizzazione di un progetto «sbilanciato» verso quel diverso modello di sviluppo di cui il mondo ha più che mai bisogno. Perché sviluppo non vuol dire aumento infinito della produzione di merci in un ecosistema che infinito non è, ma ridimensionamento della produzione (produrre cosa? quanto? come? dove? per chi? e soprattutto con quali costi umani e ambientali?) e orientamento verso la produzione di servizi e sapere.