Cento anni dalla Conferenza di Shangai, madre di tutte le convenzioni internazionali, dieci anni dal proclama Onu per «un mondo senza droghe»: simbolicamente, la Conferenza Onu sulle droghe del 2008 non può non sembrarci una scadenza su cui attivare energie e intelligenza, su cui mobilitarci. Cominciamo, allora, a scambiare idee: in questo numero danno il via Peter Cohen e Franco Corleone, altri seguiranno. E per tutto il 2007, fuoriluogo.it dedicherà uno spazio ad approfondimenti, valutazioni, dati e opinioni.
Molti sono i problemi che un movimento si trova di fronte quando si tratta di grandi convenzioni internazionali, consolidate – «religiosamente», come dice Cohen – in una inestricabile rete di interdipendenze tra nazioni, tra nord e sud del mondo, tra strategie economiche e militari globalizzate.
Perché l’orizzonte è questo: non esageriamo quando diciamo che le politiche internazionali sulle droghe sono state una delle prime grandi prove generali di globalizzazione ante litteram: è utile andare a rileggere il vecchio e attuale libro di Giancarlo Arnao, Proibito capire, per ricordarci quanto poco (o mai) la scienza e la conoscenza abbiano guidato le decisioni Onu, e quanto queste siano fatte di interessi e strategie politiche, oltre che di ideologia.
Pensiamo ai paesi europei: quando hanno aderito alla convenzione del 1961 nemmeno sapevano cosa fosse un fenomeno di massa di consumo di droghe, l’esperienza l’hanno fatta dopo, ma ormai erano già nel tunnel… Ma allora: un altro trattato è impossibile? Non è questa la giusta domanda, suggerisce qui Franco Corleone, dobbiamo prendere la questione per un altro verso. O per diversi altri versi, come sempre fa un movimento che si trova di fronte il moloch della globalizzazione. C’è un approccio bottom up che in Europa va avanti più o meno sotterraneo da molto tempo: è quello dei paesi che agiscono in barba alle convenzioni e che scoprono che queste non sono poi così vincolanti, come è accaduto per le injecting rooms, per esempio: l’Onu le ha stigmatizzate ma non ha potuto fare nulla. C’è quello dei sindaci e delle città, che trovandosi vis a vis con i problemi reali, a volte se ne infischiano e provano a fare qualcosa di pragmatico, e alla fin fine nessuno li scalza dalla loro poltrona. Ci sono i movimenti, che praticano semine e aprono club, qualche volta la pagano (loro sì…) ma riescono a lasciare la traccia viva e riproducibile delle loro pratiche. Ci sono migliaia di operatori che «spingono» sui limiti e sulle frontiere della legge, e tra le maglie del consentito costruiscono innovazione. Insomma, c’è un lavorìo di erosione sistematica e cocciuta.
Il nodo è: dobbiamo attestarci solo su questo «sottrarsi» delle pratiche? Non è detto. Stare ben fermi sui propri piedi non vuol dire non alzare lo sguardo. Innanzitutto abbiamo il compito di connettere, far interagire pratiche, esperimenti, innovazioni, perché facciano «movimento» e sappiano produrre un pensiero. E poi, almeno: premere sui governi nazionali, enfatizzare le innovazioni e le strategie autonome, lanciare diverse ipotesi di alleanza con i paesi produttori, contestare le celebrazioni, non smettere di denunciare effetti perversi, lottare per i diritti umani. Un terreno, quest’ultimo, che riguarda i consumatori del nord e del sud del mondo come i trafficanti che vengono impiccati in nome della war on drugs come i contadini produttori. E infine, siamo italiani… e come ricorda nel suo intervento Corleone, esigiamo che almeno si interrompa la triste saga degli Arlacchi e dei Costa.