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L’amministrazione Bush ha chiesto che siano aumentati significativamente i fondi federali da destinare ai test antidroga per gli studenti atleti, e quelli destinati a una campagna pubblicitaria che mira a scoraggiare il consumo di marijuana tra i giovani. Per sottoporre ai test antidroga “random” (a caso) gli studenti che partecipano alle attività extra-curriculari – in particolare le competizioni sportive – la Casa Bianca «si accontenta» di 17,9 milioni di dollari per il 2008. Più esosa la richiesta di fondi per finanziare la campagna nazionale antidroga rivolta ai giovani (National Youth Anti-Drug Media Campaign): il budget previsto per il 2008 è di 130 milioni di dollari, con un aumento del 31% rispetto a quello attuale. Da quando fu lanciata per la prima volta nel 1998 – denuncia l’associazione americana Norml – la campagna è costata più di due miliardi di dollari.
Negli Stati uniti il ricorso ai test antidroga è molto diffuso. L’American Management Association calcola che più del 60% dei lavoratori dipendenti siano sottoposti dal datore di lavoro a test antidroga prima dell’assunzione o nel corso della propria vita lavorativa, ma in realtà il numero delle aziende disposte a spendere molti soldi per sottoporre a test antidroga i loro dipendenti è in calo.
L’estate scorsa il settimanale Time ha dedicato un’inchiesta al fenomeno del drug testing nei posti di lavoro (Reynolds Holding, 7/7/06). Per le società che commercializzano i test antidroga si tratta di un piatto molto ricco: il giro d’affari si aggira intorno a un miliardo e mezzo di dollari all’anno. Il costo per singolo lavoratore, secondo Quest Diagnostics, una delle principali aziende del settore, varia tra i 25 e i 50 dollari. Time cita però uno studio dell’Ucla (University of California, Los Angeles) del 1999, secondo il quale il governo federale aveva speso 11,7 milioni di dollari per identificare 153 consumatori di droghe tra quasi 29.000 dipendenti testati nel 1990, al costo di 77.000 dollari per test positivo.
La percentuale dei dipendenti risultati positivi ai test antidroga è scesa dal 13.6% nel 1988 al 4.1% nel 2005, e sono molte le aziende che cominciano a chiedersi se il gioco valga la candela. Esse si stanno rendendo conto che il ricorso a test indiscriminati, in particolare per la marijuana, oltre a essere lesivo del diritto alla privacy del lavoratore, è anche inidoneo a garantire la sua produttività e più in generale la sicurezza sul lavoro. Come è noto infatti, le analisi delle urine possono rivelare la presenza di metaboliti inerti nei consumatori di marijuana anche a distanza di molti giorni dal consumo, quando cioè l’eventuale fase di intossicazione è ormai terminata. La Jian, una società che vende prodotti informatici, ha chiesto a Norml di fornirle delle linee guida più aggiornate e razionali da utilizzare nel suo “Employee Manual Builder”, un manuale che le aziende usano per regolare i rapporti di lavoro al loro interno.
Le linee guida di Norml raccomandano alle aziende di evitare il ricorso a inutili e costosi test preventivi di massa, attuati mediante le analisi delle urine. Si propone piuttosto al datore di lavoro di chiedere al lavoratore di sottoporsi al test, così come avviene per l’alcol, solo nel caso in cui il suo comportamento, e dunque l’eventuale consumo, incidano sulla sicurezza sua o di altri, o comunque sulla prestazione lavorativa. In questi casi Norml consiglia di ricorrere ad esami più specifici, come il test del sangue o della saliva, i quali sono in grado di rilevare a quando risale l’eventuale intossicazione. In altre parole, si chiede alle aziende di riconoscere la differenza tra uso e abuso. Ai lavoratori viene naturalmente richiesto di non consumare sostanze psicoattive durante il lavoro. Si vuole insomma impedire che il dipendente sia discriminato in quanto consumatore, insistendo allo stesso tempo sulla sua responsabilizzazione, in un approccio più rispettoso degli stili di vita individuali.