«Debbono essere custodite e curate nei manicomi le persone affette per qualunque causa da alienazione mentale quando siano pericolose a sé o agli altri o riescano di pubblico scandalo e non siano e non possano ess e r e convenientemente custodite e curate fuorché nei manicomi». Queste disposizioni (poste all’inizio dell’art. 1 della legge 14/2/1904 n. 34, “legge sui manicomi e gli alienati”) riassumevano l’impostazione dell’ordinamento rispetto al problema dell’infermità psichica. L’istituzione manicomiale era considerata, anche dalla scienza psichiatrica, come l’unica risposta possibile al disagio mentale. Il sistema penale e processuale penale introdotto dal legislatore del 1930 corrispondeva coerentemente a tale impostazione.
In definitiva il sistema si presentava con una sua intrinseca coerenza. Se l’istituzione manicomiale corrisponde alle esigenze terapeutiche della malattia mentale, può ben assolvere anche alla funzione di tutelare la collettività dai rischi derivanti dalla libera circolazione di soggetti infermi di mente che abbiano commesso un reato. Ma la successiva legge 13/5/1978 n. 180 capovolge completamente l’impostazione della normativa previgente, negando ogni validità terapeutica all’istituzione manicomiale, di cui decreta l’abolizione.
La legge in sostanza nega ogni associazione tra malattia mentale e pericolosità sociale e soprattutto esclude qualsiasi funzione di difesa sociale dei trattamenti sanitari, cui restituisce piena ed esclusiva funzione terapeutica. Questa, sul piano teorico, è forse la novità più interessante della riforma. La condizione di infermità psichica non autorizza alcuna presunzione di pericolosità sociale e non è ragione sufficiente per l’adozione di provvedimenti di custodia. Cade, in sostanza, l’ipocrisia che pretendeva di attribuire finalità terapeutiche a provvedimenti di limitazione della libertà personale del malato, chiaramente dettati dal prevalere di esigenze di difesa sociale.
L’approvazione della legge del 1978 avrebbe dovuto portare a una immediata revisione dell’intera disciplina delle misure di sicurezza, al fine di adeguare gli interventi penali alle novità introdotte sul piano sanitario e terapeutico. Negli anni molte delle disposizioni penali e processuali che contrastavano in maniera evidente con le disposizioni costituzionali e con le novità introdotte dalla riforma sanitaria sono cadute per opera della Corte costituzionale o del legislatore ordinario. Ma si è trattato di interventi settoriali che non hanno modificato l’impostazione di fondo del sistema, nel quale permangono contraddizioni ed incertezze tra istanze di difesa sociale ed esigenze terapeutiche, ma soprattutto permane, a dispetto della scelta radicale della legge n. 180, l’istituzione manicomiale, oggi denominata Ospedale psichiatrico giudiziario, come prevalente risposta penale all’infermità di mente.
Le correzioni operate dalla Corte, pur condivisibili, risolvono solo parzialmente le contraddizioni rilevabili nel sistema delle misure di sicurezza. Ai fini dell’applicazione delle misure di sicurezza personale nei confronti dell’infermo di mente che abbia commesso un reato, afferma in sintesi la Corte, è condizione necessaria la attuale e persistente pericolosità sociale dell’autore. Tale pericolosità sociale è definita dall’art. 203 del codice penale come probabilità di commissione di nuovi fatti preveduti dalla legge come reato.
La pericolosità sociale è dunque condizione necessaria per l’applicazione di misure di sicurezza, ma anche condizione sufficiente (ed è qui il limite degli interventi della Corte). E quindi la pericolosità sociale della persona ne consente il ricovero in ospedale psichiatrico indipendentemente dalla gravità del reato commesso, essendo sufficiente la commissione di un reato punito con la pena della reclusione superiore nel massimo a due anni; e indipendentemente dalla gravità dei reati che si presume la persona potrebbe commettere. E senza limiti di tempo e quindi in ipotesi anche per un tempo superiore al massimo edittale previsto dalla legge per il reato commesso.
In particolare sul punto dell’assenza di un limite massimo di durata della misura di sicurezza applicata provvisoriamente, si è pronunciata più volte la Corte costituzionale, rigettando le censure prospettate dai giudici di merito. Il principio enunciato è quello della non assimilabilità delle misure di sicurezza detentive alla carcerazione “per la diversità della natura e delle finalità delle due forme restrittive della libertà personale: rieducativa (e per taluni anche retributiva) la prima; curativa e precauzionale la seconda” (sentenza n. 96 del 4/6/1970).
Finalità curativa e precauzionale dunque da tenere ben distinta anche dalle finalità tipicamente processuali della custodia preventiva, il che porta a escludere l’applicabilità dell’art. 13 della Costituzione alle misure di sicurezza (sentenza n. 74 del 30/5/1973).
In verità con la legge n. 180 del 1978 è caduto definitivamente ogni alibi di una pretesa finalità curativa e terapeutica delle misure manicomiali. Per cui proprio alla luce della legislazione vigente l’unica finalità residua delle misure di sicurezza è quella precauzionale, che però è perfettamente sovrapponibile all’esigenza (processuale) fissata nell’art. 274, lettera c) del codice di procedura penale (relativo alle misure cautelari). Solo che, mentre per l’applicazione provvisoria di una misura di sicurezza (detentiva) è sufficiente la sussistenza di gravi indizi di reato e il pericolo di commissione di ulteriori reati, per l’applicazione di misure cautelari detentive è necessario anche che il reato per cui si procede sia punito con pena non inferiore nel massimo a tre anni e che il pericolo di commissione di ulteriori reati riguardi «gravi delitti con uso di armi o di altri mezzi di violenza personale o diretti contro l’ordine costituzionale ovvero delitti di criminalità organizzata o della stessa specie di quelli per cui si procede». Inoltre la custodia cautelare non può protrarsi oltre i termini rigorosi fissati dal codice, mentre la misura di sicurezza può essere mantenuta fino a che permanga la pericolosità sociale dell’imputato.
Ora appare difficile giustificare come la medesima esigenza di difesa sociale venga in un caso fortemente bilanciata in favore del diritto di libertà della persona accusata; e in un altro invece prevalga sempre e comunque sui diritti di libertà dell’accusato. Venuto meno, si ripete, l’alibi terapeutico la situazione normativa appare francamente insostenibile. L’esigenza di una riforma del sistema delle misure di sicurezza è ampiamente condivisa sia dai giuristi che dagli operatori del settore.
Il progetto più coerente con la impostazione della legge del 1978 è quello, diciamo così, più radicale, che prevede l’abolizione della non imputabilità. È un progetto che si fonda su una intelligente provocazione. Dal momento che il sovrapporsi di istanze di custodia e di istanze terapeutiche può determinare per gli infermi di mente autori di reato un trattamento deteriore rispetto agli autori di reato imputabili, l’abolizione della non imputabilità diventa una garanzia per l’infermo di mente. Ovviamente il progetto non dimentica la particolarità della situazione dell’infermo di mente, per cui la fictio iuris della assimilazione con i soggetti imputabili in sede cognitiva viene meno nella fase esecutiva, per la quale si prevede l’assegnazione in appositi istituti. La proposta è condivisa anche da una parte della scienza psichiatrica che contesta la validità scientifica della nozione di non imputabilità. Ma piace meno alla scienza penalistica.
Una diversa impostazione si ritrova nel progetto di riforma del codice penale elaborato dalla Commissione ministeriale presieduta dal prof. Grosso. In questo progetto si conferma la nozione di non imputabilità e il sistema delle misure di sicurezza, ma si realizza comunque la necessaria armonizzazione con la normativa sanitaria. In particolare si prevede come eccezionale la misura di sicurezza del ricovero in una struttura chiusa, che potrà essere applicata solo nei confronti di chi abbia commesso un delitto contro la vita, l’integrità fisica, la libertà personale, l’incolumità pubblica o comunque commesso con violenza o minaccia contro la persona e quando vi sia il concreto pericolo che il soggetto commetta nuovamente uno di tali delitti. Per tutte le misure di sicurezza, inoltre, si prevede una durata massima di cinque anni. Limite che può essere eccezionalmente superato per il tempo strettamente necessario, in presenza di un pericolo concreto e non altrimenti fronteggiabile di atti gravemente aggressivi contro la vita o l’incolumità delle persone.
Articolo di Giuseppe Cascini
Il superamento dell’ospedale psichiatrico giudiziario è improcrastinabile. La riforma Basaglia, negando all’istituzione manicomiale ogni valore terapeutico, faceva cadere anche l’ipocrisia dettata dal prevalere di esigenze di difesa sociale L’abolizione della non imputabilità per gli infermi di mente autori di reato è una proposta coerente che offrirebbe loro maggiori garanzie. Da Fuoriluogo, gennaio 2002