Il mondo dei consumi di droghe e delle sostanze psicoattive si è negli ultimi anni fortemente diversificato. È sempre più difficile formulare una immagine univoca del tossico o del consumatore, mentre d’altra parte i modi di consumare e di soffrire insieme, si sono moltiplicati. Anche se non è possibile stabilire una corrispondenza consumi di droghe/sofferenza (si pensi ai consumi collegati con il loisir notturno) è però vero che, da un po’ di tempo, molte “storie tossiche” si sono intrecciate con esperienze di sofferenza particolarmente intense. La bagarre terminologica che si è sviluppata per cercare di dare senso a queste storie: se si debba parlare di doppia diagnosi o di comorbilità, rischia di avvitarsi su se stessa e di sottrarre piuttosto un senso. Di fatto parlare di doppia diagnosi significa mettere in evidenza la nostra ignoranza di fronte a un fenomeno che non può non essere unitario nella persona, mentre parlare di comorbilità tossico-psichiatrica (e non solo psichiatrica) significa ammettere che le due modalità di diagnosi e i due saperi in generale devono provare a dialogare per incontrare le persone e per comprendere cosa provano, cosa sentono e in cosa ci chiedono aiuto.
Ma prima ancora di porci il problema di come classificare o definire, è opportuno capire e cioè chiarire a noi stessi la natura e i caratteri di questa sofferenza tossica (come preferisco chiamarla), cercare di afferrarla così come ci appare immediatamente (senza mediazioni) attraverso i nostri sguardi semplici ma esercitati di operatori dei servizi… prima che queste esistenze si dissolvano nel mare delle dispute classificatorie o delle psicopatologie, dei riduzionismi bio-psico-socio…
Partiamo dal disorientamento (o se si preferisce dal carattere “perturbante”) che proviamo al cospetto del tossico-folle: cosa accade a una persona che vive contemporaneamente un’esperienza di consumo di sostanze psicoattive e una esperienza folle? L’aspetto inedito sta in questo: in apparenza il fenomeno sembrerebbe riducibile o a una tossicodipendenza o a una malattia mentale. In realtà quando si incontra quella persona ci si accorge che non è né l’una né l’altra e né tutte due insieme ma qualcosa di nuovo, di inedito che noi non dobbiamo avere la pretesa o la presunzione di conoscere già. Ciò che possiamo fare è utilizzare gli elementi della nostra cultura dell’incontro per iniziare a descrivere (co-descrivere tra operatori dei due sistemi di servizi e tra operatori ed utenti, per quanto è possibile), scambiarsi punti di vista, riflessioni, nella consapevolezza del carattere evolutivo, provvisorio e pragmatico di questa operazione. In tal modo si ricercherà l’aspetto inedito di quella sofferenza e la domanda di aiuto e le richieste di relazioni che eventualmente esprime. È singolare e significativo come in tutta la discussione che si è sviluppata sull’argomento sia stato completamente ignorato il pensiero di Franco Basaglia per il senso che ha rappresentato di liberazione non solo dei matti dal Manicomio ma anche dei nostri pensieri dalle gabbie di culture chiuse ed autoreferenziali.
«Ed è per questo che la diagnosi psichiatrica ha assunto il significato di un giudizio di valore, di un etichettamento… Ciò significa che il malato è stato isolato e messo tra parentesi dalla psichiatria, perché ci si potesse occupare della definizione astratta di una malattia, della codificazione delle forme, della classificazione dei sintomi, senza temere possibili smentite da parte di una realtà che, in questo modo veniva ad essere negata. Ora, sommersi sotto un castello di entità morbose, etichettamenti, definizioni, siamo costretti a mettere fra parentesi la “malattia” come classificazione nosografica se si vuole riuscire a vedere in faccia il malato e il suo disturbo reale» (Franco Basaglia). L’avvertimento di Franco Basaglia ci deve accompagnare e aiutare a non ricadere nell’errore di riprodurre meccanismi di esclusione di nuova sofferenza. Ma proprio quelle riflessioni ci spingono a utilizzare gli elementi della nostra cultura di operatori per procedere per interrogativi intesi come gli elementi di base per procedere a chiarire l’inedito del fenomeno. Indico alcune di queste domande possibili:
Cosa accade nell’incontro tra una dinamica psichica che allenta i nessi psico-esistenziali e li disgrega ed una dinamica che li ricostituisce nella sua relazione reiterata (o provvisoria) con l’effetto di una sostanza stupefacente? Tra il farsi corpo della droga ed il dis-farsi della follia? Tra due stati modificati di coscienza (entrambi contraddizioni non ospitate dalla ragione dominante e perciò ritenute non conoscibili di per sé) che danno luogo a una nuova dinamica psico-esistenziale (sociale-interpersonale) che si costituisce e ri-costituisce nell’incontro tra due esperienze di sofferenza. L’interazione continua tra i due processi, cioè, quali formazioni di esistenza costituisce, quali mondi fonda?
Come accade nella psiche-esistenza, così anche nei saperi e nei sistemi di servizi è necessario adottare un approccio unitario rispettoso dell’autonomia e specificità del fenomeno che si esprime, appunto, in modo unitario nella persona. Una comorbilità può risultare dalla combinazione diversa di elementi (tipologia di sostanze, tipologie del consumo, precedenti psichiatrici, storia di tossicodipendenza, fase del ciclo della vita, famiglie multiproblematiche…) sempre considerando la “interpretazione unica” del soggetto protagonista che non recita nessun copione precostituito. Ogni persona racconta una nuova “teoria” della comorbilità. Questo aspetto misterioso rappresenta anche il fascino del nostro lavoro.
La dia-gnosi, seguendo questo percorso, si sviluppa continuamente attraverso (dia) un processo di conoscenza (gnosis) di brani della storia di quella persona con la quale si prova a ricostituire il senso ed i significati che il consumo assume nell’intreccio con una psicopatologia. All’interno di questo stile può diventare stimolante anche reinterrogare le categorie nosografiche e psicopatologiche (nei diversi dialetti nei quali vengono declinate).
La diagnosi deve saper riflettere sulla gravità dei casi, sulla loro multiproblematicità. Una diagnosi orientata all’intervento deve considerare le risorse a disposizione (quelle della persona e quelle dei due sistemi di servizio implicati). Questo approccio può essere considerata una sfida per i due sistemi di servizi: Salute Mentale e Tossicodipendenze (e consumi di sostanze in generale) ai nostri saperi, alle nostre concezioni organizzative, alle nostre pratiche operative e discorsive diverse, divergenti in alcuni casi e convergenti in altri.
Articolo di Stefano Vecchio
APPUNTI PER UNA DIAGNOSI RISPETTOSA DELL’UNICITÀ DEL SOGGETTO. Cosa accade a chi vive allo stesso tempo un’esperienza di consumo e una di follia? Il fenomeno può sembrare riducibile o a una dipendenza o a una malattia mentale, in realtà non è né l’una né l’altra, né ambedue insieme. Da Fuoriluogo, luglio/agosto 2004.