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L’utilizzo che oggi viene fatto della “doppia diagnosi” nei confronti di quei tossicodipendenti che presentano rilevanti sintomi sul piano psicopatologico è il frutto del ritorno acritico di culture biologiche. La conseguente riproposizione di classificazioni, definizioni e regole, piuttosto che facilitare la lettura della realtà tende a filtrarla, mascherarla, occultarla.
La diagnosi, “doppia” o “singola” che sia, è sempre una sottrazione di senso alla vita della persona: omologa, riduce, classifica sottraendo valore e senso alla storia personale, ai vissuti, alla soggettività.
Il processo diagnostico, in psichiatria, è sempre falsamente deduttivo: sovrapporre schemi e definizioni agli oggetti della sua osservazione e costruisce poi i relativi nessi causali.
L’uso della diagnosi, qui “doppia”, piuttosto che offrire strumenti per la lettura e la comprensione della storia delle persone, risponde, in maniera difensiva, al bisogno di quei servizi che, attraverso pratiche che separano bisogni diversi in una stessa persona, perseguono l’obiettivo di allontanare da sé il problema e di dislocarlo altrove. Questo è il modo attraverso cui si sono strutturati e si alimentano circuiti infiniti che rinviano ad altro senza mai offrire una risposta esauriente e concreta; ciascun servizio dà una risposta, sempre parziale, e si garantisce rispetto al suo compito istituzionale.
Risponde ancora all’interesse delle case farmaceutiche che riducono e semplificano la vita delle persone per suggerire l’uso di farmaci per altro particolarmente costosi. Le anfetamine per bambini disattenti, gli antipsicotici di nuova generazione per gli adolescenti burrascosi; gli antidepressivi a “fiume” per le umane infelicità della vita quotidiana; e per gli anziani nelle case di riposo, sedativi e contenzione.
Su due elementi di riflessione vorrei fermare l’attenzione:
1. È del 1975 il divieto di ricoverare in manicomio i tossicodipendenti. La legge 685/75, evitando il ricovero del tossicodipendente in ospedale psichiatrico, cercava soprattutto di avviare percorsi sanitari e sociali non più fondati sulla istituzionalizzazione violenta delle persone. La legge, però, vietando il ricovero in manicomio, non voleva di certo dire che le persone che assumono sostanze non possono vivere anche situazioni di disagio assimilabili al disagio psichico.
2. Ha ragione Marcomini (cfr. Fuoriluogo, aprile 04) quando ricorda il peso della “illegalità del mercato” nelle storie di sofferenza di giovani tossicodipendenti. L’illegalità l’avevamo identificata, anni fa, con il “doppio del problema” ovvero quella maschera, quelle incrostazioni, quelle modalità comportamentali stereotipate e stili di vita “istituzionalizzati” simili nelle diverse persone tossicodipendenti, necessitati, condizionati non dal problema in sé, ma dal suo “doppio” ovvero dalla illegalità. E abbiamo sempre saputo che, se quel “doppio” non fosse esistito, ovvero il carcere, la pena, il nascondimento, la coesione gruppale difensiva, la difesa fatta sistema di vita, la marginalità, e molto altro ancora, il problema sarebbe apparso per quello che era. E meno difficile sarebbe stata la ricerca di “percorsi di normalità”. Ma, e qui la mia opinione è difforme da quella di Marcomini, si sarebbe comunque evidenziato un problema.
La tossicodipendenza non è soltanto la ricerca di nuove modalità di vivere, di rompere i limiti della normalità, di provare sensazioni particolari, forme di piacere e di introspezione speciali; spesso, e i servizi pubblici per le tossicodipendenze lo registrano tutti i giorni, i tossicodipendenti portano storie di vita condizionate dalla marginalità, dalla fragilità, dall’abbandono, dalla miseria anche culturale e relazionale! Poco hanno a che vedere con la libertà e il desiderio di radicalità. In questi casi quello che interessa non è la questione della “doppia diagnosi”, ma la presenza o meno di servizi sanitari e sociali, pubblici e del privato sociale, in rete ed integrati, in grado di sviluppare buone pratiche, mettendo al centro la persona, tentando di trovare tutte le possibili soluzioni ai suoi molteplici bisogni. Anche se serve, e perché no!, in collaborazione con i servizi di salute mentale.
Quando invece i servizi intervengono catalogando e classificando con la finalità di separare bisogni e persone, producono la vera pericolosità sociale. Spingono le persone nell’area della marginalità e limitano di fatto il loro potere e la loro autonomia attraverso cattive pratiche fondate sul rinvio, sull’abbandono piuttosto che sul sostegno e l’accompagnamento.
Credo che oggi non si possa più parlare della psichiatria in termini di controllo sociale. L’esercizio del controllo si attua piuttosto attraverso meccanismi diffusi ed eterogenei talvolta sotterranei, impalpabili. La psichiatria non mi sembra più al centro della scena.
Il controllo oggi mi pare si materializzi piuttosto attraverso l’abbandono, la negazione. Le forme dell’esclusione si concretizzano, quasi per inerzia, in un processo progressivo di periferizzazione degli individui. La cittadinanza finisce silenziosamente per scivolare via.
Inclusione è la parola d’ordine delle democrazie mature. Se ieri gli psichiatri garantivano e confermavano (attraverso il certificato medico) l’esclusione, era questo il senso del mandato, oggi è per includere che si deve lavorare. Tuttavia sotto la copertura delle politiche per l’inclusione, periferizzazioni, frammentazioni, lesioni quotidiane di diritti costruiscono circuiti manicomiali sotterranei, giganteschi mondi di marginalità, assenza di democrazia, sottrazione di senso e di diritto alla vita di uomini e donne. È questa la piattezza, l’opacità, il mondo che conferma la psichiatria. Lo psichiatra, quello della “doppia diagnosi e non solo, oggi è di fatto complice (acritico) di questi meccanismi.
In altre parole la psichiatria clinica, ma anche nella sua declinazione comunitaria, territoriale, finisce per confermare questi percorsi di scivolamento verso il margine. Diventa una delle tante stazioni del declino, con le sue porte girevoli, le sue dichiarate competenze, insieme al carcere, alla stazione di polizia, all’alloggio popolare, l’ospedale, la panchina della metropolitana, l’associazione di volontariato. Sono certa che oggi bisogna rifiutarsi di giocare questo ruolo. In questo senso ritengo assai rischioso il ricorso alla “doppia diagnosi”. Bisogna rifiutare di costruire la tragica inerzia del manicomio diffuso così come ci rifiutammo di essere complici della violenza delle istituzioni totali. Il rifiuto può attuarsi soltanto cercando di sviluppare intenzionalmente strategie di contrasto a questi meccanismi di silenziosa periferizzazione. Più che distruzione di istituzioni il tecnico deve avvertire la necessità di costruire istituzioni, di inventare percorsi nuovi e alternativi, intrecciare instancabilmente reti di significato intorno alle persone. I servizi centrati sulle persone possono essere i luoghi di queste invenzioni dove può prendere forma, inverarsi, assumere il significato trasformativo il mandato dell’inclusione. Questo mi sembra antagonista.
Per chi ha lavorato per superare forme di istituzionalizzazione a tutela della cittadinanza e della soggettività e lavora oggi per costruire percorsi innovativi, non può non risultare evidente la necessità di superare non solo l’uso delle classificazioni e della “doppia diagnosi” ma anche la poetica e la mistica delle “alterazioni dello stato di coscienza”. E non può non apparire altrettanto evidente la necessità di costruire nella ruvidezza della vita quotidiana davvero “percorsi di normalità” che sostengano la diversità, nel concreto, producendo inclusione sociale.