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L’incontro con gli utenti dell’ambulatorio per la somministrazione di metadone avviene nei locali del centro stesso: tre stanze che si affacciano direttamente sulla strada, nella zona del vecchio porto. Il mare non si vede più, al suo posto si gode la vista del traffico della sopraelevata che attraversa Genova. È uno sfregio ambientale che sembra turbare più una turista come me che gli abitanti del quartiere: come se i genovesi il mare ce l’avessero “dentro”, parte intoccabile della storia e dell’identità della città, che ai loro occhi rimane comunque bella. Bella e indecifrabile appare anche a me, che però non rinuncio ad allungare il collo oltre la sopraelevata.

Un gruppetto di tossicodipendenti staziona in strada, altri invece sono dentro, in una specie di atrio che immette nella piccola stanza dove si dà il metadone. Ma in quell’andito non ci sono sedie e il responsabile dell’ambulatorio, Franco Marasco, gentilmente ci fa accomodare nel suo ufficio. Oltre a Piero ed Enrico, due utenti del servizio, ci sono anche Graziella e Roberto della comunità di don Andrea Gallo. Sono loro che hanno organizzato questo incontro: da circa un mese ogni settimana si riuniscono presso la comunità i tossicodipendenti che frequentano l’ambulatorio. Hanno già formato un’associazione (“Disagio Sociale”) e prodotto alcuni documenti: Piero me li ha già messi in mano prima ancora di iniziare il nostro colloquio.

Il dottor Marasco ci tiene a chiarire che l’apertura dell’ambulatorio è un’esperienza assolutamente nuova e originale. In precedenza il metadone era distribuito nell’ospedale di Sampierdarena, una struttura vecchia e fatiscente, per sole due ore al giorno. I tossicodipendenti sostavano all’aperto, col sole e con la pioggia, perfino i malati con 40° di febbre. “Era una scelta trattare i tossicodipendenti come bestie”, conferma il medico. Poi gli operatori del Sert, insieme a don Gallo, hanno iniziato una battaglia per trovare una soluzione più dignitosa. Gli attuali locali dell’ambulatorio erano occupati dai vigili dell’Annona. Il Comune ha dovuto trasferirli per far spazio ai tossicodipendenti. Una bella vittoria, se si pensa alle frequenti sollevazioni degli abitanti dei quartieri contro l’apertura di servizi sul territorio per i “drogati”. Adesso l’ambulatorio è aperto dodici ore al giorno, la distribuzione di metadone avviene in due turni: dalle 7 alle 9,30 per chi lavora, poi ancora dalle 13 alle 17. Il farmaco è consegnato anche a domicilio, servizio utilissimo specie per i malati gravi di AIDS.

“La storia dell’assistenza ai tossicodipendenti a Genova è costellata di esperienze avanzate, ma anche di ritardi e resistenze culturali fortissime”, continua Marasco. Ci spiega che all’inizio degli anni ’70 fu sperimentata la somministrazione di morfina per iniziativa quasi pionieristica di un assessore provinciale, Lamberto Cavallini. Sperimentazione che però non trovò alcun riscontro e sostegno politico. Anche i Sert, istituiti dalla legge del 1990, furono aperti in ritardo. Oggi il Sert di Genova è suddiviso in 5 unità operative, e ha in carico circa 3000 utenti. Negli ultimi due anni si è lentamente affermata la riduzione del danno. Basti pensare ai dati dell’ambulatorio: in un anno i soggetti in trattamento metadonico sono quasi triplicati (da 100 a 286). “Ma c’è ancora molto da fare per cambiare la cultura”, aggiunge il dottore, “permangono ideologie contrapposte, e spesso gli operatori, sia del pubblico che del privato, pensano in maniera onnipotente di avere la ricetta giusta per curare tutti i tossicodipendenti”.

È il punto dolente che stimola l’intervento di Piero: “Quando io tossicodipendente mi presento al Sert, ci sono operatori che si limitano ad attaccare un disco. Sempre lo stesso. Io parlo, ma ho la netta sensazione che, qualsiasi cosa io dica, la musica non cambia. I cosiddetti esperti parlano sempre e comunque a nome nostro. Per questo noi utenti abbiamo deciso di prendere la parola”. Mi pare di capire che non tutti i servizi siano disponibili verso gli utenti, come quello che ci ospita. Roberto è esplicito: “Fino a poco tempo fa c’erano Sert che negavano il metadone a tutti. Magari cambiavi Sert e te lo davano. Ancora oggi ci sono differenze incomprensibili nei dosaggi fra servizio e servizio. L’arbitrarietà è assoluta”. “Può anche capitare di esser trattati diversamente all’interno dello stesso Sert, basta cambiare operatore”, incalza Piero. Getto uno sguardo alle proposte degli utenti, indirizzate ai responsabili dei Sert: si vuole conoscere chi siano i componenti del servizio, le qualifiche, i principali modi di intervento e di cura messi in atto, i requisiti richiesti per aver diritto a entrare in un programma, si chiede la personalizzazione degli interventi… Un’operazione “trasparenza”, non scontata per l’insieme dei servizi sanitari (i diritti dei malati sono scoperta relativamente recente), e assolutamente innovativa per le tossicodipendenze. Curare la malattia, a prescindere dal malato, è il sogno (onnipotente) di un certo indirizzo della medicina; diventa ideologia indiscussa quando oggetto di cura è l’individuo “deviante”, “alterato” nel corpo, cui per ciò stesso è negato qualsiasi sapere su di sé.

Ma le richieste degli utenti non si fermano qui. Ancora Piero parla a nome di tutti: “Il metadone è un farmaco straordinario, ma i servizi dovrebbero avere un obbiettivo più ambizioso: aiutarci a stare nella società””. E spiega: “Una volta uscito dal carcere, non sono più riuscito a trovare un lavoro. Dopo un po’ cominci a non credere più in te stesso e la solitudine è totale. Cerchi di stare lontano dalla piazza, ma non sai come passare il tempo. Per questo chiediamo un locale dove incontrarci, e un laboratorio per progetti di formazione-lavoro”.

Il dottor Marasco precisa che esiste già un progetto per affiancare all’ambulatorio per il metadone un “drop in”, un luogo di socializzazione per i tossicodipendenti, dove trovino spazio esperienze lavorative. Mancano ancora i finanziamenti, e soprattutto ci vuole volontà politica. “Bene le rivendicazioni – aggiunge – ma non si possono negare le conquiste e non si può fare di ogni erba un fascio…”

Cerco di comprendere la differenza di prospettiva fra Piero e il coordinatore del servizio. Quest’ultimo ha lottato a lungo contro i pregiudizi e l’intolleranza, perché fosse riconosciuto un luogo, l’ambulatorio, ai tossicodipendenti, da trattare come “pazienti” alla pari degli altri. Se si volta indietro, vede la strada che è stata fatta. Sulle spalle di Piero pesano anni di discriminazione, di esclusione, forse gli pesa anche quell’etichetta di “paziente”, di “malato”. Perciò egli insiste: “Gli assistenti sociali ti trattano diversamente se sei un tossico. Io non ce la facevo a pagare le bollette, e le ho portate all’ufficio assistenza del Comune. Non mi aspettavo che mi dessero i soldi in mano, visto il mio passato, ma che me le pagassero sì… e invece niente”. Lo interrompe Franco Marasco: “Ma la luce non te l’hanno staccata, dunque l’assistente sociale qualcosa ha pur fatto”.

Mi viene da pensare che quelle bollette siano un falso problema. O meglio un simbolo di cattiva comunicazione. A Piero stava a cuore soprattutto che la sua domanda, così come formulata, fosse ascoltata. Una domanda di riconoscimento di dignità, più importante del bisogno materiale di accendere la lampadina la sera, al ritorno a casa.

È sabato, è già l’una passata e l’ambulatorio deve chiudere. Ci scambiamo ancora poche battute sul marciapiede, dove intanto si sono trasferiti tutti gli utenti. Piero continua a raccontare la sua vita. Faceva il marittimo, la sera si imbarcava con la boccetta di metadone ben nascosta, perché nessuno la vedesse. Per lungo tempo non ha avuto problemi, poi è finito in carcere e la sua storia, almeno quella di lavoratore, è finita lì. Mi ritornano in mente le sue parole di prima: “…dopo un po’ smetti di credere in te stesso…”. Di nuovo una domanda simbolica: che qualcuno gli rimandi l’immagine di sé come soggetto socialmente “abile”. Un riconoscimento di cittadinanza in questa Genova così difficile.