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Cannabis sativa, anzi cattiva.L’Europa finanzia, l’Italia incarcera

Con la canapa si può finire in carcere anche quando si rispetta scrupolosamente la legge. È quello che è accaduto al presidente della Confagricoltura di Napoli, Pietro Micillo, che a maggio aveva deciso di cominciare a coltivare nella sua azienda cannabis sativa per uso tessile, in un terreno di poco più di un ettaro nel Comune di Giugliano in provincia di Napoli.

Tutte le procedure del caso erano state seguite in modo rigoroso: i semi gli erano stati forniti dall’Istituto Sperimentale Colture Industriali di Osino attraverso l’Assocanapa, attestando provenienza e tipologia dei semi (cannabis sativa di varietà “Fibranova” e varietà “Futura”). La dichiarazione di semina era stata consegnata all’ispettorato agrario (come previsto dalla circolare del ministero delle Politiche Agricole del dicembre 1997), e comunicata poi alla guardia di finanza, alla polizia di Giugliano e ai carabinieri di Lago Patria.

Da tempo ormai esistono norme precise sulla coltivazione della cannabis sativa, dopo che anche l’Italia ha fatto sue le norme stabilite dall’Unione europea (che sostiene gli agricoltori attraverso incentivi economici) grazie all’autorizzazione in via sperimentale da parte del ministero.

Chi di queste norme non sa nulla è un pubblico ministero di Napoli, il dott. Minutolo, che è stato capace di far finire Pietro Micillo in carcere, colpevole di voler produrre materiale tessile. A Pietro Micillo è capitato che qualcuno, come accaduto in altri terreni coltivati a cannabis sativa (che notoriamente possiede una percentuale di THC tale da non essere appetibile per nessun fumatore), rubasse alcune foglie per poi rivenderle come canapa indiana, andando sicuramente a deludere le aspettative del consumatore. Due persone, infatti, arrestate dalla polizia di Scampia, a Secondigliano, hanno dichiarato che la loro erba proveniva proprio dalle coltivazioni dei terreni della famiglia Micillo. In seguito tre agenti e un ispettore di polizia si sono recati a Giugliano per perquisire l’azienda agricola.

Le piante sono state sottoposte immediatamente ad analisi, per una prima volta. Non si sa bene come e perché, da queste prime analisi è risultato trattarsi di canapa indiana con una percentuale di THC dello 0,9%, cioè più del limite consentito. Successivamente, in altre analisi più accurate che si sono rese necessarie, la pianta è tornata ad essere quello che era, cioè cannabis sativa a bassissima percentuale di THC.

Ma a causa di una prima analisi fatta male o forse fatta nel laboratorio sbagliato, o forse fatte per trovare quello che si desiderava trovare, uno dei proprietari del terreno è stato arrestato e condotto nel carcere di Poggioreale, dove è restato per due giorni senza poter comunicare con nessuno. Incredibilmente, la polizia non ha voluto verificare immediatamente presso i carabinieri di zona che il campo era legalmente coltivato e denunciato, nonostante le sollecitazioni del presunto colpevole. Con grande solerzia, le forze dell’ordine si sono poi impegnate a distruggere la coltivazione.

Il comportamento del pubblico ministero e della polizia in questo caso è stato tanto grave quanto, si spera, isolato. La cannabis sativa continua ad essere prodotta sempre in maggiori quantità, grazie anche al contributo economico dell’Unione europea. Il recente convegno di Ascoli Piceno organizzato dalla cooperativa Humus e dall’Assocanapa sull’utilizzo della canapa nell’industria cartaria (di cui Fuoriluogo ha riferito nel numero di maggio), ha visto la partecipazione di enti pubblici al di sopra di ogni sospetto forse anche per il pubblico ministero Minutolo, di cooperative e privati, semplicemente interessati alla possibilità di utilizzare un materiale che si presta a molte possibilità d’uso, ecologicamente sostenibile (pensate a quanti alberi risparmiati se ci si producesse la cellulosa…) e per secoli presente in Italia.

Purtroppo, non bastasse lo zelo del commissariato di Scampia, il ministero dell’Interno ha emesso una circolare all’inizio di settembre che, preso atto delle nuove disposizioni del ministero delle Politiche Agricole, “in attesa che la materia venga compiutamente disciplinata e raccordata con la normativa del Testo Unico delle disposizioni in materie di stupefacenti e sostanze psicotrope”, di fatto non distingue fra le varietà ad alto contenuto di THC e quelle coltivate a scopo industriale, rendendo la situazione al momento confusa e quindi, a rischio. Considerato soprattutto che questa incertezza impedisce che le coltivazioni vengano estese su ampie superfici che ne permetterebbero un maggiore utilizzo. Come spesso accade, persino per sostanze realmente e completamente innocue ma colpevoli di essere parenti di sostanze psicotrope, da una parte, si imbocca la strada giusta (grazie soprattutto all’Unione europea, in questo caso) e, dall’altra, si continua a perseverare in modo dannoso contro la coltivazione della canapa, questa volta sativa. Non a caso l’Assocanapa sostiene che “è necessario concordare urgentemente una linea di condotta univoca e trasparente per mettere al riparo i produttori agricoli da spiacevoli esperienze e per non bloccare sul nascere la possibilità di riprendere la canapicoltura in Italia”. Almeno per non dover spiegare più in nessuna questura la differenza fra qualcosa fatta per vestire e qualcos’altro fatto per fumare.