Come ha ripetutamente denunciato, sino all’ultimo respiro, il compianto Mario Tiengo – uno dei pionieri della terapia del dolore -, malgrado gli alleggerimenti delle norme per la prescrizione degli oppiacei narcotico-analgesici, buona parte dei medici italiani seguitano a fare orecchio da mercante. Infatti i dati sui consumi leciti dei prodotti, per lo più per la terapia del dolore grave (soprattutto ma non soltanto oncologico), seguitano a mostrare differenze spesso abissali tra il nostro e gli altri Paesi, europei e non. Questo non solo comporta per moltissimi soggetti un grave carico di sofferenze inaccettabili e assolutamente ingiustificate, ma anche un rischio di patologia iatrogena non indifferente. Infatti il dolore controllabile con oppiacei – praticamente privi di tossicità (e quando svolgono una funzione di ripristino di un minimo di benessere è addirittura ritardato lo sviluppo di tolleranza e dipendenza) – viene spesso maldestramente combattuto con analgesici-antinfiammatori di sintesi, dei quali è assai elevata la frequenza di effetti collaterali, soprattutto danni gastrointestinali anche disastrosi.
In questa vicenda poco edificante si apre ora un nuovo capitolo potenzialmente innovativo. Infatti è stato di recente pubblicato un lavoro di un gruppo di ricerca dell’Università del Minnesota (Lisa Koodie et al., “American Journal of Pathology”, vol. 177, N. 2, 2010, DOI: 10.2353/ajpath.2010.090621) mirato a verificare l’effetto della morfina sull’angiogenesi (cioè la neoformazione di vasi sanguigni) indotta da cellule tumorali polmonari in topi di un ceppo particolarmente idoneo a tale tipo di studi (topi “nudi”, cioè privi di pelo; la stimolazione dell’angiogenesi, si noti, è considerata un passaggio importante nella crescita e metastatatizzazione dei tumori maligni, infatti già sono stati messi a punto costosissimi prodotti biologici mirati alla sua inibizione). L’effetto soppressivo della morfina sull’angiogenesi è stato consistente, statisticamente assai significativo e altamente specifico, in quanto bloccato dall’antagonista naltrexone e assente in topi con knockout dello specifico recettore µ. Particolarmente interessante anche il meccanismo identificato, non agevolmente spiegabile in questa sede (per gli addetti ai lavori: soppressione del hypoxia-induced mitochondrial P38 mitogen-activated protein kinase pathway).
Un tale risultato, ovviamente, è solo un primissimo passo verso successive verifiche precliniche e poi, eventualmente, cliniche, ciascuna con una probabilità imprevedibile di produrre risultati positivi: perchè allora parlarne a un pubblico prevalentemente “laico”? In primo luogo poichè serve a confermare un importante effetto perverso delle politiche proibizioniste: cioè il ritardo geologico col quale si giunge ad avviare ricerche serie sul potenziale terapeutico di prodotti demonizzati come droghe illecite d’abuso. A tale ritardo, già ampiamente documentato nel caso dei derivati della cannabis, si sta ora tentando (assai tardivamente) di rimediare anche per prodotti come l’LSD (riammesso dopo decenni in alcuni laboratori) e per l’ecstasy (per lo studio dei potenziali benefici di quest’ultimo nei reduci con sindrome da stress post-traumatico, l’esercito statunitense e la Food and Drug Administration hanno recentemente stanziato ben 500.000 $).
In secondo luogo questa situazione conferma la subordinazione di una parte non minore della cultura medica a poteri forti come quello economico di Big Pharma e quello politico-ideologico della destra. Il primo inflaziona il rapporto beneficio-rischio dei suoi prodotti di successive nuove generazioni, attraverso l’esagerazione dei benefici e la minimizzazione dei rischi sostenute da figure leader del mondo medico-scientifico (profumatamente rimunerate), al fine di ricreare sempre più ampi marginidi profitto. Il secondo fa l’esatto contrario: sminuisce i benefici e inflaziona i rischi di quei prodotti che purchè non interessino a Big Pharma (il valore della maggioranza delle sostanze illecite, senza il proibizionismo, sarebbe più o meno come quello del sale da cucina) possono essere usati a fini di controllo sociale e di repressione, in particolare nei riguardi delle classi e dei soggetti che i nostri nonni definivano “pericolosi”.
In questo contesto, non sarà probabilmente gradita a tali poteri forti la eventualità che al consolidato valore analgesico della morfina si aggiunga uno specifico potenziale terapeutico, legato al rallentamento della crescita dei tumori maligni. Ma si deve anche avvertire che allo stato attuale sarebbe assai prematuro dare per scontato un tale successo, che oltre al notevole beneficio per i sofferenti, rappresenterebbe una dura sconfitta – sia economica che politico-ideologica – per chi specula su di essi.