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Il dibattito sul carcere ha un andamento curioso: ciclico e carsico, ma soprattutto ripetitivo. Forse perché è generalmente inconcludente: pensiamo, ad esempio, all’indulto, all’abolizione dell’ergastolo, alla scarcerazione dei malati di AIDS e dei tossicodipendenti, questioni che si trascinano stancamente di anno in anno, di legislatura in legislatura. Sul problema del lavoro per i detenuti si sta verificando una convergenza di attenzioni e disponibilità che potrebbe sfociare in nuove normative. Il pragmatismo, specie in materie così trascurate, è certo positivo. In questo specifico caso, però, si intravedono consistenti rischi, sul piano dei princìpi e dei diritti, ma anche su quello degli interessi della popolazione reclusa. Del resto, quando sul tema del miglioramento del carcere, della riduzione dell’afflittività e del tempo della pena, si verificano diffusi ed eterogenei consensi, sorge spontanea qualche perplessità. Specie se pensiamo che, non più di qualche mese fa, il coro di consensi aveva tutt’altro segno: quello di un fraudolento allarmismo per il varo di una legge, detta “Simeone-Saraceni”, di cui tutto si poteva dire e pensare tranne che potesse incidere significativamente sullo stato delle carceri e sul numero dei reclusi. Dopo di essa, con grande rapidità e nessun clamore, è passata un’altra normativa, anch’essa a larga maggioranza, quella sulla revisione dei processi. Altrettanto giusta e altrettanto inincidente. Ora, a quanto pare, è il turno dell’affettività/sessualità e del lavoro. La prima, sembra, verrà affrontata, in via sperimentale, senza necessità di interventi legislativi. Il secondo, invece, si vuole ormai incanalato entro il quadro sapientemente disegnato da alcuni detenuti milanesi, che va sotto il titolo “Proposta di legge Cusani”. Non v’è dubbio che i due progetti muovono da problemi e bisogni reali e drammatici. Entrambe le impostazioni, però, comportano un identico rischio: l’aggiunta di nuove “porte strette” entro cui il recluso sarebbe costretto a passare per fruire dei benefici e delle misure alternative, già ampiamente sottoposte alla più totale discrezionalità, entro un sistema premiale raffigurabile come un “gioco dell’oca”. Laddove prima e adesso, pur con tutte le difficoltà e incertezze (che comunque permarrebbero), il detenuto fosse faticosamente arrivato alla “casella” dei permessi di uscita, gli toccherebbe, con ogni probabilità, “stare fermo un giro”; se non per la lettera o lo spirito della norma, certo per la sua concreta applicazione da parte dei tribunali di sorveglianza che, di fronte a due alternative entrambe concedibili, naturalmente scelgono quella di minore rischio, ovvero di maggiore controllo e minore contenuto di libertà, anche in coerenza con la logica della cosiddetta “progressione del trattamento”. Nel caso specifico, facilmente il detenuto si troverebbe a dovere fruire per un periodo degli spazi interni che si andranno a predisporre per l’affettività/sessualità, prima di potere uscire in permesso. Analogo ragionamento vale per la questione del lavoro: allorquando si fosse nelle condizioni previste per la semilibertà, si starebbe fermi uno o più “giri” per svolgere “lavori socialmente utili”, non retribuiti o sottopagati. Già oggi non è insolito che, pur avendo i requisiti per la semilibertà, il detenuto debba sostare qualche tempo sulla “casella” del più restrittivo lavoro esterno, il cosiddetto “articolo 21”. Senza dimenticare che, in questo particolare gioco dell’oca, il percorso è disseminato di caselle “tornare indietro di tre passi”, se non al “punto di partenza”. Insomma: se in una scala, già assai lunga e con molte “barriere architettoniche” che tagliano fuori i più deboli, i meno ricchi e furbi, si aggiungono due gradini, è difficile ritenere che il recluso ne abbia a guadagnare circa i tempi e i modi del suo percorso di reinserimento sociale. Soffermandoci sulla questione del lavoro, il paradosso è che la proposta ora al centro dell’attenzione politica e mediatica muove dalla critica di quel sistema, almeno in apparenza e comunque nella lettura e gestione che ne fanno i più avvertiti e competenti, come Massimo Pavarini dell’università di Bologna: alla logica del premio si vorrebbe sostituire lo scambio “pena contro lavoro”. Una logica certo preferibile, poiché introdurrebbe certezza e in qualche modo diritto, laddove impera disparità (anche geografica), arbitrarietà e, talvolta, “ricatto”. Sfugge, però, come sia credibile e pensabile introdurre in un punto solo di un sistema siffatto un elemento di certezza e di automatismo, così come lascia dubbiosi la capacità “contrattuale” che, di necessità, deve contraddistinguere i soggetti di uno scambio affinché questo possa essere definito tale. Più facile immaginare che l’alternativa sarebbe quella, consueta per i poveracci, tra la padella e la brace, col rischio aggiuntivo, ed anzi credo certo, che, all’atto pratico, ovvero traducendo la teoria entro il meccanismo e le funzioni preposte al cosiddetto “trattamento”, toccherebbe bruciare in entrambe. Del resto, che la padella della pena e della premialità e la brace del lavoro “volontario” non retribuito verrebbero a sommarsi, in una sorta di doppio risarcimento, onestamente viene detto e lo si evince dalla stessa proposta milanese, almeno prima che ad essa si apponesse la più raffinata, ma poco convincente, cornice teorica bolognese. Si diceva che il dibattito è ciclico, ma anche ripetitivo. Vediamone un esempio: “Le pubbliche amministrazioni hanno tali e tanti bisogni che possono bene assicurare con le loro richieste il lavoro negli stabilimenti carcerari, e sarebbe strano che si insistesse nell’attuale sistema di rinunciare a servirsi di una mano d’opera che lo Stato può regolare come crede nell’interesse della generalità dei cittadini”. L’anno di grazia è il 1931, la citazione è del Guardasigilli Rocco, padre del codice fascista, nella relazione sul nuovo regolamento carcerario dello stesso anno. Sempre nel 1931, il criminologo americano Morris Poscowe, in un rapporto sulle prigioni per il presidente degli USA Herbert Hoover, definiva inconcepibile e controproducente il lavoro obbligatorio con salari bassi e denunciava che il sistema dell’appalto del lavoro penitenziario consentiva di ridurre i detenuti in una condizione simile alla schiavitù. L’appalto della manodopera carceraria, una specie di lavoro in affitto (anche qui nulla di nuovo…), in cui l’intermediatore è lo Stato, è rimasto a lungo in vigore anche in Italia, consentendo, ancora negli anni Settanta, forme di intenso sfruttamento. Sull’ammontare della mercede corrisposta a ogni detenuto, impiegato a cottimo, l’impresa era tenuta a versare all’amministrazione penitenziaria una “tangente legale” del 110 per cento. In modo simile al rapporto Poscowe si esprimeva, nel 1950, una Commissione d’inchiesta del parlamento italiano: “Resta ben determinato che il lavoro carcerario ha il medesimo contenuto produttivo e morale del lavoro libero, e non può essere oggetto di sfruttamento sia di imprenditori privati, sia dell’amministrazione carceraria”. Tra il poco che caratterizza oggi l’offerta di lavoro per i detenuti e il peggio, alluso dalle proposte sul tappeto, bisogna forse trovare una terza via. Che non si faccia fuorviare dalla cortina fumogena e demagogica del far lavorare “tutti e subito” i reclusi, partorendo magari il topolino della “manette elettroniche” o dell’ampliare sì il lavoro, ma a beneficio dei formatori. E che tenga fermo e irrinunciabile quel fondamentale principio di civiltà affermato nel nostro Parlamento 48 anni fa, invece di quello, pragmatico e utilitarista, definito nell’anno X dell’Era fascista.

* Direttore Fondazione Carcere e Lavoro